Il balio si sta asciugando

A mio modestissimo parere la riluttanza mattarelliana ad un secondo mandato presidenziale non era tanto dovuta a pur legittimi dubbi costituzionali né a sacrosanti motivi personali, ma a considerazioni squisitamente politiche inerenti alla profonda crisi dei partiti giunta al limite della irreversibilità. Il capo dello Stato l’aveva potuta verificare dando vita correttamente, oserei dire coraggiosamente, a governi dotati di maggioranze parlamentari numericamente necessarie, ma politicamente astruse e incapaci affrontare le problematiche del Paese. Ad un certo punto aveva dovuto prescindere, seppure parzialmente e provvisoriamente, dalla politica in senso stretto per innescare l’operazione Draghi, della serie “è opportuno che vi facciate da parte per un po’ di tempo, poi semmai si vedrà…”.

Mattarella, strada facendo, nell’ultimo anno aveva però colto due indizi gravi, precisi e concordanti, quelli che fanno una prova: da una parte le forze politiche incapaci di darsi una mossa, di autoriformarsi, di riprendere in mano il proprio ruolo; dall’altra il governo Draghi vieppiù inadeguato, per diversi fattori, a fronteggiare e gestire una situazione gravissima.

Il presidente non poteva continuare a tenere tutti a balia, era giunto il momento di metterli, seppure dolorosamente, di fronte alle proprie responsabilità, evitando di continuare a fare da copertura ad una situazione sui generis. La gente capiva che il rischio di gettare in acqua la politica era che questa affogasse, anziché imparare a nuotare e insisteva per la permanenza di Mattarella al Quirinale.

I partiti, tramite i loro parlamentari, hanno constatato di essere totalmente incapaci di svolgere il ruolo a loro affidato dalla Costituzione e quindi sono corsi in fretta e furia sotto la gonna del presidente per un supplemento di cura, mostrando le loro imbarazzanti magagne. Cosa poteva fare Mattarella? Non era il caso di insistere con una terapia choc e quindi occorreva ripiegare su una lunga e morbida degenza all’ospedale quirinalizio. Fuor di metafora, il primario Draghi doveva per forza di cosa continuare nel suo lavoro, pur rischiando di fare la fine di quel direttore di una clinica il quale, quando andava in visita con il solito codazzo, accennava alle diagnosi con i propri pazienti che erano costretti a vedere alle sue spalle gli ampi ed inequivocabili gesti di diniego da parte degli assistenti. Vai a capire se erano sbagliate le diagnosi e le terapie o se erano invidiosi, capricciosi e irresponsabili i medici in corsia. Fatto sta che i partiti-medici si sono messi a cincischiare e a fare di tutto per rendere puzzolenti le piaghe del Paese, lasciando Mattarella solo e disperatamente in attesa del Godot della politica.

Le malattie sono letteralmente esplose nella loro gravità: sul bagnato di una crisi senza precedenti è piovuta una guerra, aggiungendo un diluvio di problemi ai problemi. Il governo si sta rivelando incapace di esprimere una seria e fattiva politica di pace a livello europeo e mondiale, inoltre sta segnando il suo algido distacco dai problemi reali, preso com’è dalle sue tecnocratiche e sistematiche elaborazioni del (quasi) nulla. I partiti e le loro già traballanti coalizioni sono andati letteralmente nel pallone. C’era da aspettarselo. I polli si sono scatenati e hanno cominciato a beccarsi di brutto in una rissa politica senza precedenti. Forse Mattarella rischia di venire sepolto sotto la valanga, il suo ospedale sta andando in tilt ed è costretto a ripiegare su una sorta di minimalismo quirinalizio.

Un mio simpatico amico, ai tempi del Presidente Gronchi, aveva coniato un emblematico soprannome: “Giovanén tajanastor”. Mattarella potrebbe essere risucchiato in un ruolo formale, che non gli si confà e che non merita. Secondo il mio maligno acume lo aveva capito per tempo e intendeva fare, anzi aveva già fatto, trasloco, ma purtroppo la politica si è vendicata e gli sta riservando un trattamento speciale.

E adesso? Non è questione di centro-destra e/o di centro-sinistra, di M5S nelle mani di Conte o Di Maio, di Lega di governo o di lotta, di centro o di ali, non è nemmeno questione di riforma elettorale o di riforma dei regolamenti parlamentari. Il centro-destra sente la nostalgia di Berlusconi: è una triste premessa. Il centro-sinistra fa i conti con Conte: non è una cacofonia, ma un nonsenso politico. Al palio della destra corrono i cavalli di razza, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, con la possibilità che vincano i cavalli scossi tendenti al centro.  Nel rodeo pentastellato si misurano Giuseppe Conte e Luigi Di Maio: Grillo sta a guardare andando fuori tempo massimo. Nel cosiddetto centro c’è una zeppa di grandi parole con percentuali di voto da prefisso telefonico. Il partito democratico fa il pesce lettiano nel barile della storia della sinistra.

I partiti politici italiani (almeno alcuni, in particolare quelli in calo di consenso, vale a dire il M5S e la Lega) stanno sfruttando il momento di ansia e incertezza dovuta all’aggressione dell’Ucraina per distinguersi dalla e nella maggioranza, recuperare credibilità, spazio e ruolo, mettendo a rischio il sostegno parlamentare al governo Draghi, strumentalizzando le pur comprensibili e rispettabili divergenze di idee sull’emergenza bellica. La storia insegna che, mentre i dittatori si rafforzano con le guerre, i governi democratici di fronte ad esse vanno in crisi. Pur ammettendo sempre più che non è tutto oro quel poco che luccica nel governo Draghi, sarebbe veramente insensato mettergli, completamente al buio (sempre più buio), i bastoni fra le ruote.

Si può dunque dire che il fuoco della inconsistenza politica covi anche sotto la cenere dell’emergenza bellica (quella pandemica è stata più esorcizzata che risolta). Si continuano a intravedere alla moviola le due ipotesi che giravano in vista dell’elezione del Presidente della Repubblica: una, partitica, di maniera, che mirava ad una presidenza di comodo, di mera sopravvivenza sistemica, quella di Pierferdinando Casini (fortunatamente Dio, e non si è capito bene chi altri, ce ne hanno liberato in tempo); l’altra fatta di protagonismo parlamentare e di consenso democratico e popolare, quella di Sergio Mattarella.

I partiti continuano a oscillare paurosamente fra questi due stili di comportamento, dando un colpo al cerchio del mero tatticismo e un colpo alla botte dei problemi reali. In mezzo sta la “virtù” di un Draghi fine dicitore e inconcludente governante.

Non si può però fare confusione e pensare che il “regime mattarelliano” valga tanto quanto il “sistema casinista”. A Mattarella piace Mina e quindi non si può pensare di cantargli canzonette qualsiasi con parole partitiche e musica pseudo-politica.