La resistente giacca di Mattarella

Dal momento che le parole del presidente Mattarella pronunciate indirettamente o direttamente in materia di guerra russo-ucraina hanno dato adito a critiche e discussioni, considerati il rispetto e la stima che nutro per lui, mi sono preso la briga di rileggere parola per parola i suoi due ultimi interventi: quello in occasione della celebrazione del 77° anniversario della Festa della Liberazione e quello all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.

L’interpretazione prevalente e piuttosto strumentale delle parole del Capo dello Stato è la seguente: Mattarella dà pieno sostegno alla linea dura del governo e anticipa la disponibilità dell’Italia a sostenere un nuovo pacchetto di sanzioni nei confronti della Russia. Indubbia anche la necessità di sostenere la resistenza ucraina.

Dopo aver letto e riletto più volte i discorsi non mi sembra che Mattarella abbia sposato nessuna linea dura se non quella di considerare irrinunciabili i diritti umani e dei popoli, di riconoscere i torti clamorosi e incontestabili della Russia e le ragioni della resistenza ucraina. Il discorso delle sanzioni è peraltro contenuto in un botta e risposta successivo all’intervento davanti all’Assemblea parlamentare. C’è, a mio giudizio, in atto una forzatura, una sorta di tirata di giacca al Presidente: chi lo giudica troppo accondiscendente verso la strategia molto statunitense e poco europea, chi lo desidererebbe schierato, senza se e senza ma, nella risposta bellicista verso la Russia.

Devo ammettere che, fidandomi dei resoconti e dei commenti giornalistici, il primo discorso, quello di Acerra del 25 aprile, aveva suscitato anche in me qualche perplessità intravedendo nelle parole di Mattarella uno sbrigativo e più sentimentale che politico collegamento fra la Resistenza Italiana e quella Ucraina. Riporto di seguito questo passaggio finale del testo.

“Oggi, in questa imprevedibile e drammatica stagione che stiamo attraversando in Europa, il valore della Resistenza all’aggressione, all’odio, alle stragi, alla barbarie contro i civili supera i suoi stessi limiti temporali e geografici.

Nelle prime ore del mattino dello scorso 24 febbraio siamo stati tutti raggiunti dalla notizia che le Forze armate della Federazione Russa avevano invaso l’Ucraina, entrando nel suo territorio da molti punti diversi, in direzione di Kiev, di Karkiv, di Donetsk, di Mariupol, di Odessa.

Come tutti, quel giorno, ho avvertito un pesante senso di allarme, di tristezza, di indignazione.

A questi sentimenti si è subito affiancato il pensiero agli ucraini svegliati dalle bombe e dal rumore dei carri armati. E, pensando a loro, mi sono venute in mente – come alla senatrice Liliana Segre – le parole: “Questa mattina mi sono svegliato e ho trovato l’invasor”. Sappiamo tutti da dove sono tratte queste parole. Sono le prime di “Bella ciao”.

Questo tornare indietro della storia rappresenta un pericolo non soltanto per l’Ucraina ma per tutti gli europei, per l’intera comunità internazionale. Come ho sottolineato tre giorni fa davanti alle Associazioni partigiane, combattentistiche e d’arma, avvertiamo l’esigenza di fermare subito, con determinazione, questa deriva di guerra prima che possa ulteriormente disarticolare la convivenza internazionale, prima che possa drammaticamente estendersi.

Questo è il percorso per la pace, per ripristinarla; perché possa tornare ad essere il cardine della vita d’Europa. Per questo diciamo convintamente: viva la libertà, ovunque. Particolarmente dove viene minacciata o conculcata.

Rileggendo non trovo nulla da eccepire, non vedo nessun placet all’invio di armi all’Ucraina e men che meno un gradimento alla prospettiva di aumentare gli investimenti a livello militare. Mattarella si è giustamente tenuto lontano dalla bagarre politico-mediatica del “lei è favorevole o contrario a inviare armi all’Ucraina”: ha volato alto parlando di esigenza di fermare la guerra e di ripristinare la pace. Le forzature del suo pensiero sembrano oltre modo fuori luogo. Se possibile, il Presidente lo ha chiarito ancor meglio davanti all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Questo discorso merita di essere riportato nei punti salienti.

“Quanto la guerra ha la pretesa di essere lampo – e non le riesce – tanto la pace è frutto del paziente e inarrestabile fluire dello spirito e della pratica di collaborazione tra i popoli, della capacità di passare dallo scontro e dalla corsa agli armamenti, al dialogo, al controllo e alla riduzione bilanciata delle armi di aggressione.

É una costruzione laboriosa, fatta di comportamenti e di scelte coerenti e continuative, non di un atto isolato. Il frutto di una ostinata fiducia verso l’umanità e di senso di responsabilità nei suoi confronti. Come ci ricordava Robert Schuman “la pace non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Se perseguiamo obiettivi comuni, per “vincere” non è più necessario che qualcun altro debba perdere. Vinciamo tutti insieme.

(…)

Di fronte a un’Europa sconvolta dalla guerra nessun equivoco, nessuna incertezza è possibile. La Federazione Russa, con l’atroce invasione dell’Ucraina, ha scelto di collocarsi fuori dalle regole a cui aveva liberamente aderito, contribuendo ad applicarle.

La deliberazione di questa Assemblea parlamentare – del Consiglio d’Europa – di prendere atto della rottura intervenuta è coerente con i valori alla base dello Statuto dell’organizzazione, che indica la strada di una unione più stretta delle aspirazioni comuni dei popoli europei.

La responsabilità della sanzione adottata ricade interamente sul Governo della Federazione Russa. Desidero aggiungere: non sul popolo russo, la cui cultura fa parte del patrimonio europeo e che si cerca colpevolmente di tenere all’oscuro di quanto realmente avviene in Ucraina.

Non si può arretrare dalla trincea della difesa dei diritti umani e dei popoli. Si tratta di principi che hanno saputo incarnarsi nella storia della seconda metà del ‘900 e, a maggior ragione, devono sapersi consolidare oggi.

La ferma e attiva solidarietà nei confronti del popolo ucraino e l’appello al Governo della Federazione Russa perché sappia fermarsi, ritirare le proprie truppe, contribuire alla ricostruzione di una terra che ha devastato, è conseguenza di queste semplici considerazioni.

Alla comunità internazionale tocca un compito: ottenere il cessate il fuoco e ripartire con la costruzione di un quadro internazionale rispettoso e condiviso che conduca alla pace.

Un grande intellettuale, Paul Valery – passato attraverso le due guerre mondiali – richiamava i concittadini europei a prendere coscienza di vivere in un mondo “finito”. “Non c’è più terra libera” – scriveva – nessun lembo del globo è più da scoprire.

(…)

Mentre il conflitto ha ulteriormente indebolito il sistema internazionale di regole condivise – e il mondo, come conseguenza, è divenuto assai più insicuro – la via di uscita appare, senza tema di smentita, soltanto quella della cooperazione e del ricorso alle istituzioni multilaterali.

Sembrano giungere a questa conclusione anche quei Paesi che, pur avendo rifiutato sin qui di riconoscere la giurisdizione della Corte Penale Internazionale, ne invocano, invece, oggi, l’intervento, affinché vengano istruiti processi a carico dei responsabili di crimini, innegabili e orribili, contro l’umanità, quali quelli di cui si è resa colpevole la Federazione Russa in Ucraina, riconoscendo in tal modo il ruolo necessario di quella Corte.

Se la voce delle Nazioni Unite è apparsa chiara nella denuncia e nella condanna ma, purtroppo, inefficace sul terreno, questo significa che la loro azione va rafforzata, non indebolita. Significa che iniziative, come quella promossa dal Liechtenstein e da altri 15 Paesi, per evitare la paralisi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu vanno prese in seria considerazione.

La guerra è un mostro vorace, mai sazio. La tentazione di moltiplicare i conflitti è sullo sfondo dell’avventura bellicista intrapresa da Mosca. La devastazione apportata alle regole della comunità internazionale potrebbe propagare i suoi effetti se non si riuscisse a fermare subito questa deriva. Dobbiamo saper scongiurare il pericolo dell’accrescersi di avventure belliche di cui, l’esperienza insegna, sarebbe poi difficile contenere i confini.

Dobbiamo saper opporre a tutto questo la decisa volontà della pace. Diversamente ne saremo travolti. Per un attimo, esercitiamoci – prendendole a prestito dal linguaggio della cosiddetta “guerra fredda” – a compitare insieme parole che credevamo cadute ormai in disuso, per vedere se ci possono aiutare a riprendere un cammino, per faticoso che sia. Distensione: per interrompere le ostilità. Ripudio della guerra: per tornare allo statu quo ante. Coesistenza pacifica, tra i popoli e tra gli Stati. Democrazia – come ci insegna il prezioso lavoro della Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa – come condizione per il rispetto della dignità di ciascuno. Infine, Helsinki e non Jalta: dialogo, non prove di forza tra grandi potenze che devono comprendere di essere sempre meno tali.

Prospettare una sede internazionale che rinnovi radici alla pace, che restituisca dignità a un quadro di sicurezza e di cooperazione, sull’esempio di quella Conferenza di Helsinki che portò, nel 1975, a un Atto finale foriero di sviluppi positivi. E di cui fu figlia la Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.

Si tratta di affermare con forza il rifiuto di una politica basata su sfere di influenza, su diritti affievoliti per alcuni popoli e Paesi e, invece, proclamare, nello spirito di Helsinki, la parità di diritti, la uguaglianza per i popoli e per le persone. Secondo una nuova architettura delle relazioni internazionali, in Europa e nel mondo, condivisa, coinvolgente, senza posizioni pregiudizialmente privilegiate. La sicurezza, la pace – è la grande lezione emersa dal secondo dopoguerra – non può essere affidata a rapporti bilaterali – Mosca versus Kiev -. Tanto più se questo avviene tra diseguali, tra Stati grandi e Stati più piccoli.

Garantire la sicurezza e la pace è responsabilità dell’intera comunità internazionale. Questa, tutta intera, può e deve essere la garante di una nuova pace.

Ancora una volta si può concludere che abbiamo un capo dello Stato capace di rappresentare e interpretare l’unità nazionale e il positivo sentimento comune del popolo italiano.  In un momento in cui le parole hanno più che mai un peso, lui le usa con sobrietà, equilibrio e coerenza costituzionale. Potrebbe o dovrebbe fare qualcosa di più? Ho fiducia che lo faccia nei giusti momenti e nelle giuste sedi istituzionali. In parole povere mi auguro che dia una svegliata al governo al fine di assumere iniziative appropriate in campo europeo a favore della pace e in autonomia rispetto alle scorciatoie americane. Sia chiaro è solo un mio auspicio e non una delle tante forzature in atto.