Le false certezze della politica e i veri dubbi della coscienza

Mentre piovono le bombe, muore la gente, crollano gli edifici, si accumulano le macerie, si cancellano le città, si distruggono le case, si lacerano gli animi, si perpetrano stragi e torture, si fugge con disperazione dal territorio Ucraino, il dibattito culturale e politico si avvita, in modo surreale, su questioni di principio e di strategia politico-militare. E si litiga, ci si scambiano accuse pesanti, si lanciano scomuniche verso chi osa dissentire dall’ortodossia bellicista a cui tutto, gira e rigira, si riconduce. Mi sono ripromesso di fare di seguito una breve sintesi dei punti controversi attorno ai quali girano le analisi e le discussioni in ordine alle cause ed alle prospettive della situazione ucraina inserita nel contesto europeo e mondiale, facendomi guidare soprattutto dalle (in)certezze della mia coscienza.

Data per scontata la condanna, senza se e senza ma, dell’invasione russa (chi tentenna non è chi interroga la propria coscienza, ma chi oggi spara cannonate dopo avere fino a ieri portato fiori al grande dittatore russo), è giusto sostenere la resistenza ucraina sul piano militare? La Nato aveva imbottito di armi l’Ucraina ben prima dell’invasione (qualcuno arriva a sostenere che l’Ucraina sia militarmente più forte della Russia), trascurando quelli che potevano essere i margini per il raggiungimento di accordi diplomatici per una collocazione pacifica e condivisa di questo Paese nel contesto internazionale ed europeo e nel rispetto della sua giovane e contraddittoria democrazia. Effettivamente ora è tardi per assentarsi dall’obbligo morale e politico della difesa dell’aggredito, al contempo non può sfuggire il rischio di cristallizzare una vertenza militare tendente all’infinito. Forse potrebbe valere ed essere applicato il famoso detto di Confucio: “Se in riva al fiume vedi qualcuno che ha fame non regalargli un pesce…ma insegnagli a pescare”. “Se vedi un Paese aggredito non limitarti a regalargli delle armi con cui difendersi…ma cerca di aiutarlo affinché in futuro non abbia bisogno di armi, ma di pacifica democrazia”.

Resta tuttavia il punto su cui molti si impantanano: si deve sostenere ad oltranza l’eroica resistenza del popolo ucraino, che appare convinta, compatta, coraggiosa e pronta a tutto, oppure sarebbe meglio consigliare all’Ucraina una resa che metta fine alla carneficina a cui questo popolo sembra destinato? Non voglio fare il benaltrista, ma ritengo che possa e debba esserci una via d’uscita: un onorevole compromesso patrocinato e garantito dalle cosiddette grandi potenze, che sarà certamente duro da digerire soprattutto per chi sta sacrificando la vita per difendere la patria, ma che costituirà una base di partenza per la rinascita dell’Ucraina, ma anche per iniziare a disegnare nuovi equilibri geopolitici in un mondo lacerato e strutturato in veri e propri imperi globali. Purtroppo l’Europa appare troppo disunita per sedersi a questo tavolo con voce in capitolo, salvo un orgoglioso ed abile colpo di reni: l’Ue deve mettersi in gioco per poter giocare un ruolo positivo e costruttivo.

Diversamente la guerra tra Russia ed Ucraina rischia di diventare lo status quo nei rapporti tra Oriente ed Occidente e lo specchietto per le allodole dello scontro tra democrazia occidentale e dittatura russo-cinese. La democrazia non si difende con le bombe, ma con il buon esempio delle libertà praticate a tutti i livelli ed in tutti i sensi, con la solidarietà economico-sociale vero i deboli, con le vie diplomatiche, con il dialogo, con il sostegno alla dissidenza culturale e politica verso i regimi dittatoriali.

Riguardo alla dissidenza interna alla Russia v’è chi la considera decisiva per abbattere il regime putiniano e chi la considera ancora troppo debole per un simile rivoluzionario disegno. E allora ecco emergere l’illusione ottica americana di poter sfruttare l’occasione per affondare i colpi, mettere in discussione la leadership di Putin e uscire dalla guerra solo dopo avere in qualche modo rimosso il dittatore/nemico.

Anche sulle sanzioni economiche alla Russia non c’è uniformità di vedute: chi le considera l’arma decisiva per mettere in crisi l’economia di quel Paese e per ridurre gli aggressori a più miti consigli e chi le considera ingiuste perché finiscono con l’affamare i popoli (soprattutto quelli economicamente fragili), contraddittorie perché si ritorcono contro chi le ha imposte e comportano il rischio di solleticare rigurgiti nazionalisti ed autarchici, inutili perché esistono mille modi per aggirarle in modo furbesco e ridurle a pantomima economica sulla pelle dei Paesi sotto-sviluppati.

Sul come puntare nel breve termine a far finire o comunque a interrompere, magari anche solo gradualmente, questo pazzesco focolaio di guerra si intravedono due linee. Quella europeista (almeno condivisa dal nocciolo duro dei  Paesi europei) sarebbe volta ad offrire una via d’uscita diplomatica alle parti in guerra, trattando al giusto livello (e non dando la palla in mano ad ulteriori autocrati (Erdogan) con un Putin messo possibilmente all’angolo anche tramite una triangolazione con la Cina: il pericolo è evidentemente quello di dare una qualche legittimazione alla tattica putiniana del fatto compiuto, meglio così che incancrenire un conflitto senza capo né coda. Quella statunitense e filo-americana (la potremmo titolare con una azzeccata espressione prodiana, quella della “muta ferocia”) punta a spodestare Putin o comunque a tenerlo sulla graticola, ritorcendo contro di lui questa guerra da lui inventata e dichiarata, finendo con l’usare i tanto vezzeggiati ucraini come carne da cannone: avrebbe il pregio della schematica chiarezza al limite del manicheismo, il difetto di una guerra mondiale dietro l’angolo seppur combattuta per interposto Paese.

Le linee tattiche di cui sopra vengono però giocate, in modo infantile e insulso, o sul filo del telefono o sulla spinta di improvvide sparate demagogiche. Entrambe oltre tutto risentono smaccatamente di preoccupazioni elettoralistiche. L’ex premier Romano Prodi rimpiange paradossalmente il clima della guerra fredda, che pur aveva qualche regola, a fronte di un pantano in cui i potenti stanno trascinando il mondo con la loro insipienza e pigrizia.  Si potrebbe dire: meglio la guerra fredda di una pace bollente in cui ci stiamo scottando tutti.

Il rischio è che possa prevalere la linea americana con una Ue ridotta, come sempre, a ruota di scorta ed appiattita su un filo-americanismo sempre più inconcludente e disperato. Se l’Europa esiste deve, come già detto, battere un colpo, facendo significativi e coraggiosi passi in avanti sulla strada di un vero europeismo convinto, concreto e fattivo.

La strada europea è anche quella che dovrebbe consentire di risolvere il gran busillis delle spese militari che, per la verità, non c’entrano niente con l’invasione dell’Ucraina, ma che rischiano di avvitare i Paesi europei in una folle corsa al riarmo, sostanzialmente utile solo a chi produce le armi stesse, eticamente inaccettabile e politicamente insensata: una irrinunciabile e doverosa difesa comune snellita, moderna ed efficiente, che porterebbe non ulteriori spese ma risparmi di spesa.

Ho trascurato volutamente lo spettro atomico, perché se da una parte dovrebbe indurre tutti a più miti consigli, dall’altra può finire col condizionare le azioni diplomatiche, riducendole a mere sceneggiate, a puri diversivi basati su equilibri della paura e del terrore: così non si costruisce certo la pace, ma solo la pace dei sepolcri.