La Turchia lancia segnali di fumo

Pur essendo, dal punto di vista della fede cristiana, credente e praticante, non amo le pratiche devozionali, soprattutto quelle consistenti nel recarsi collettivamente o individualmente a un luogo sacro per compiervi speciali atti di preghiera, specialmente a scopo votivo o penitenziale. Sono cioè piuttosto allergico ai pellegrinaggi, anche se rispetto e ammiro chi compie questi viaggi con sentimenti e propositi di pietà o venerazione.

Anche mia sorella la pensava così al punto da confessare al nostro parroco questa “colpevole” allergia devozionale. Lui non fece neanche una piega, la tranquillizzò e le consigliò, qualora avesse tempo, voglia e denaro, di riconciliarsi con i pellegrinaggi facendo un salto in Terra Santa: lì il discorso si fa diverso. Così fece e ne tornò entusiasta anche se non mancava di rammentare con ironia la scena della visita all’Orto del Getsemani, momento di grande intensità emotiva e di forte impatto religioso. Un paio di donne ruppero l’incantesimo con un ingenuo quanto fastidioso richiamo alla bellezza delle petunie coltivate nel giardino, dove presumibilmente duemila anni prima Gesù sudava sangue…

I capi di Stato occidentali (e non solo loro) non vanno troppo per il sottile e si stanno recando in pellegrinaggio a Kiev per rendere più omaggi che aiuti a Volodymyr Zelensky, il presidente dell’Ucraina, il tormentato Paese invaso proditoriamente dalla Russia di Putin. Quando osservo in televisione le relative immagini mi chiedo: cosa penserà Zelensky? Lui ha fatto il pellegrinaggio mediatico nei parlamenti democratici, certamente però non si fa illusioni tanto che non manca mai di andare al sodo e di chiedere aiuti, soprattutto armi. E di queste l’Ucraina deve essere piena zeppa. Persino il Papa sta valutando la possibilità di recarsi a Kiev con ben altri sentimenti e scopi.

In questo pellegrinaggio geopolitico non trovo niente di interessante e di positivo: è solo una (s)comoda passerella dei big in cerca di onore e di posizionamento (pre) bellico. Fa certamente più notizia chi non si reca a Kiev per scelta o per rifiuto da parte del destinatario (vedi il caso del presidente tedesco Steinmeier). Tutti promettono appoggi ed aiuti senza valutarne i rischi e le concrete possibilità. Zelensky ha capito l’antifona ed ha preferito stare, come si suole dire, nei primi danni: si è messo dalla parte di Biden (lui non bada a spese), ben capendo che ciò significa diventare carne da cannone per sempre. Perso per perso, meglio succhiare l’osso degli americani che mangiare la carne avvelenata dei Russi e persino la carne assai magra dell’Europa.

Mario Draghi non si è ancora recato in pellegrinaggio a Kiev. Qualcuno ricama sul fatto. Si vorrà tenere le mani libere per inserirsi in una trattativa al di fuori degli schemi sempre più consolidati di una guerra ad oltranza? Magari fosse così…Temo invece che si tratti del solito atteggiamento italiano di chi aspetta il profilo del vincitore per saltarvi sul carro. Anche perché purtroppo Draghi non ha “le palle” per distinguersi e prendere le distanze dalla strategia folle degli Usa (dovrebbe essere facile capire che gli interessi Usa non collimano con quelli europei, invece rimaniamo bloccati e imprigionati nella nostra peraltro giusta opzione storica) e per guidare l’Unione europea in una problematica autonoma azione di pace. A meno che, udite-udite, la Turchia non faccia un miracolo al di fuori del pellegrinaggio di cui sopra.

Come scrive Ilaria Lombardo sul quotidiano “La stampa”, il ministro degli Esteri di Ankara ha detto in un’intervista a Cnn Turk: «Durante il vertice tra ministri degli Esteri Nato ho avuto l’impressione che ci siano alcuni membri Nato che vogliono che il conflitto prosegua. Vogliono che la Russia diventi più debole». Il riferimento è ovvio: per la Turchia, Paese membro dell’Alleanza atlantica, l’atteggiamento di Stati Uniti e Regno Unito non aiuta a cercare una strada per arrivare alla pace e complica il lavoro della diplomazia. Di più: i turchi si stanno convincendo che il presidente americano Joe Biden e il premier inglese Boris Johnson stiano lavorando soprattutto a ottenere un regime change, secondo uno schema preciso che deve portare alla demolizione della Russia e alla caduta di Vladimir Putin.

Mi permetto di essere d’accordo col ministro turco: sono arrivato a questo punto…La realtà è quella delineata da Ankara (sic!). Ma proseguo con quanto scrive Ilaria Lombardo.

L’Italia si trova in una posizione difficile. Come spiegano da Palazzo Chigi, «l’indiscutibile» posizione di chiaro filoatlantismo non ha impedito a Draghi di insistere ripetutamente sulla ricerca della pace. Anche la fornitura di armi, dicono le fonti della presidenza del Consiglio, non è certo in contrasto con questo obiettivo. Le pressioni della diplomazia sono arrivate fino a Draghi. Dopo un’iniziale smentita sull’agenda, e la pressione che indirettamente c’è per la visita, già avvenuta o già prevista, degli altri leader europei, a Palazzo Chigi non escludono che anche il premier possa volare a Kiev. Sarebbe l’occasione per discutere faccia a faccia con il presidente Volodymyr Zelensky delle reali volontà degli ucraini e di quali margini concreti lasciare alle trattative. Secondo Draghi, il prerequisito per ragionare seriamente di pace «non può che essere il cessate il fuoco». Ed è Putin che deve dare questo segnale. I turchi si sarebbero convinti che una strada, quella che fino al 29 marzo secondo Cavusoglu era stata tracciata, c’è e chiedono all’Italia di fare sponda per concentrare su questo ogni sforzo dell’Unione europea, anche a costo di sganciarsi da Washington e Londra, come ha fatto Olaf Scholz in Germania. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan punta a una «conferenza di pace», un formato dove accanto a ucraini e russi siedano altri importanti attori.

Non credo ai miei occhi e alle mie orecchie: mi devo attaccare alle analisi e alle proposte della Turchia, un Paese a quasi dittatura come ebbe a dire Draghi stesso con un clamoroso scivolone diplomatico. Qualche tempo fa, durante una conferenza stampa, Draghi aveva parlato di Erdoğan dicendo che è “un dittatore” di cui “però si ha bisogno”. Draghi stava commentando l’incidente diplomatico avvenuto ad Ankara, durante un incontro ufficiale fra Unione Europea e governo turco. All’inizio dell’incontro, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, era rimasta senza un posto dove sedersi, dato che le uniche due sedie disponibili erano state occupate dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e dal presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan.

«Non condivido assolutamente le posizioni del presidente Erdoğan, credo che non sia stato un comportamento appropriato, mi è dispiaciuto moltissimo per l’umiliazione che la presidente della Commissione Von der Leyen ha dovuto subire», aveva detto Draghi. Dopodiché aveva aggiunto che «con questi, diciamo, chiamiamoli per quel che sono, dittatori» di cui però «si ha bisogno» è necessario «trovare l’equilibrio giusto»: «Uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute, di opinioni, di comportamenti, di visioni della società», e deve essere anche «pronto a cooperare, più che collaborare, per assicurare gli interessi del proprio Paese».

Magari Draghi è stato sgarbato e incauto, ma anche un po’ profeta, almeno speriamolo. L’invito all’Italia a svolgere un ruolo particolare potrebbe essere una raffinata vendetta turca nei confronti del nostro premier. Tutto è possibile. In questo momento, lo ammetto a malincuore, meglio giocare di sponda con Erdogan che appiattirsi sul gioco di Biden e Johnson, anche perché sul piatto non c’è solo l’Ucraina, ma l’equilibrio bellico o pacifico mondiale. Se le cose dovessero andare così come delineato dalla Turchia, d’ora in poi dovremmo dire “mamma li Turchi” con ben altro significato rispetto a quello solito.