Antimafia ma non troppo

Quando si tratta di chiacchierare di politica, i giornali sono prodighi di particolari e di approfondimenti più o meno pertinenti, quando si passa dalle schermaglie tattiche di partiti e correnti ai contenuti di leggi in discussione al Parlamento, il taglio diventa estremamente superficiale, approssimativo e confuso. Ragion per cui è spesso difficile coglierne la portata, il contenuto e capire il motivo del contendere.

Non so quindi se ho ben inteso, ad esempio, quale sia il nocciolo della questione in materia di codice antimafia. Mi pare si stia discutendo sulla opportunità di applicare le misure della lotta alla criminalità organizzata (sequestro e confisca dei beni) anche ai casi di corruzione. Materia delicata e complessa.

Senza voler fare il processo alle intenzioni, sembra che niente a che fare con l’ansia di   evitare i rischi di un giustizialismo paralizzante abbia la posizione strumentale di chi teme che questa mannaia allargata possa abbattersi su significative fette di politica corrotta o in bilico tra spregiudicatezza e corruzione: tale atteggiamento si nasconde dietro i tecnicismi per boicottare una legge scomoda per un sistema di potere alquanto tentato di lasciarsi corrompere.

Prescindo quindi da queste eventuali fuorvianti, opportunistiche e maliziose posizioni, lasciandole alla coscienza dei parlamentari. Riporto il dibattito alla buona fede ed alle rette intenzioni dei protagonisti. Da una parte c’è l’esigenza di combattere con efficacia e possibilmente di prevenire il fenomeno dilagante della corruzione: a detta della Corte dei Conti sarebbe la causa principale del dissesto finanziario nei conti pubblici. Dall’altra parte esiste il pericolo di creare confusione facendo di ogni erba (reati diversi) un fascio (mafia).

Nella mano dei politici parlano, più o meno opportunamente, magistrati in prima linea sul fronte antimafia e anticorruzione, che vengono giustamente ascoltati non fosse altro per il fatto che sarà la magistratura a dover applicare questi provvedimenti (per la verità tutte le leggi devono essere applicate dai giudici, non per questo devono essere loro a dettarle direttamente o indirettamente). Mi sembra di capire che il Parlamento sia giunto ad un testo che risponde sostanzialmente alle valutazioni del procuratore nazionale antimafia (specificare al meglio i limiti tra corruzione e mafia), mentre tale testo viene aspramente criticato dal presidente dell’Autorità anticorruzione (non è condivisibile la traslazione tout court della normativa antimafia alla corruzione).

Che i parlamentari siano piuttosto confusionari nel legiferare è un dato scontato, ma bene o male spetta a loro questo potere: mi pare che in questa fase il fiato giudiziario stia un po’ troppo sul collo legislativo delle nostre istituzioni. Le leggi non le devono fare né Franco Roberti, né Raffaele Cantone, ma il Parlamento, mediando al meglio tra le diverse istanze, esigenze e impostazioni. Altrimenti si arriva alla paralisi e non se ne esce più.

Ricordo quando operavo nell’ambito della programmazione e gestione teatrale: mi facevo spesso scrupolo di ascoltare (troppo) i tecnici, gli addetti ai lavori, etc. Un astuto collega mi confortava, riportandomi alla realtà: «Se stessimo rigorosamente ai pareri dei musicologi non metteremmo in scena neanche la recita della poesia di Natale…». A ognuno il suo compito. Penso debba essere così anche a livello delle massime istituzioni.

Per ritornare a bomba vedo il rischio che il provvedimento di legge in questione, stiracchiato dai soloni giudiziari, finisca nel binario morto (con grande soddisfazione dei disfattisti): lo dice il ministro della giustizia. Lui ha l’autorità per esprimere tali timori. Io non ho l’autorità, ma mi permetto di temere che, gira e rigira, il codice antimafia, anziché essere applicabile ai corrotti, finisca in cavalleria. Operazione tutt’altro che cavalleresca.