Velo, burkini, kirpan: l’immigrazione in pillole

Per affrontare e risolvere i problemi risulta comodo, facile e illusorio partire dalla fine. Più le questioni sono difficili e complesse e più si cade nella tentazione di cercare soluzioni sbrigative. Sta succedendo con il discorso dell’immigrazione: chi propone l’innalzamento di muri, chi il pattugliamento delle coste, chi la veloce selezione e il conseguente rimpatrio. Persino la Corte di Cassazione viene tirata per i capelli nella stucchevole questione del rispetto dei nostri valori, che gli immigrati dovrebbero garantire.

Prima il velo, poi il burkini, adesso siamo al kirpan. Sulla questione del pugnale identitario del sikhismo, una religione monoteista dell’India, si stanno sbizzarrendo un po’ tutti: giuristi, uomini di cultura, politici, editorialisti, giornalisti. Tutti a disquisire sulla lapalissiana sentenza: «È essenziale l’obbligo   per l’immigrato di conformare il propri valori a quelli del mondo occidentale. Non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante».

Sui giornali però va in pagina la beffa: in rapida e clamorosa successione, dopo le discussioni sul coltello, detenuto da un Indiano, proibito e definitivamente sanzionato dalla Cassazione, su cui tornerò lapidariamente fra poche righe, si legge immediatamente delle vergognose speculazioni mafiose perpetrate sulla pelle di questi disgraziati trattati come animali, distraendo i fondi destinati alla loro accoglienza per orientarli a foraggiare clan e cosche. E non finisce qui, perché c’è poi tutto lo sfruttamento della mano d’opera degli immigrati trattati come schiavi.

Proseguendo la lettura ci si imbatte nella recensione di un saggio su “terrorismo, emigrazione e islamismo” di Tariq Ramadan e Riccardo Mazzeo, da cui estraggo alcuni significativi passaggi: «La maggior patologia dell’Occidente consiste nella colonizzazione della vita da parte della ragione strumentale. Risiede in gran parte qui l’origine dei mali attuali. Poiché in nome della religione dell’utile, l’Occidente ha depredato il Sud del mondo, la disuguaglianza è aumentata a dismisura e le guerre hanno devastato intere regioni del pianeta. (…) Solo un preciso esercizio critico permetterà allora di demistificare l’equazione tra terrorismo, emigrazione e islamismo: perché gli attentatori sono in larga misura cittadini europei; perché se circolano le merci, non si può impedire la circolazione degli esseri umani; e perché parlare genericamente di “migranti” musulmani”, anziché, ad esempio, di migranti turchi, pachistani o siriani, inquina il dibattito e diffonde la sbagliata convinzione che l’Islam non rappresenti una religione a tutti gli effetti europea».

Non entro nel merito, colgo solo la profondità di queste provocazioni culturali per dimostrare appunto come il discorso sia delicato e complicato da tutti i punti di vista, come i comportamenti degli Occidentali palesino contraddizioni enormi e come le semplificazioni lascino il tempo che trovano.

Torno alle battute iniziali. La sentenza della Cassazione mi sembra l’uovo di Colombo. Dice giustamente Emma Bonino: «Tutti. Italiani, migranti, turisti devono rispettare le leggi italiane. La legge sulle armi mi pare sia del 1975 e vieta di portare il coltello. Punto». I problemi vengono prima e dopo. Se bastasse infatti vietare i coltelli e i burka, andremmo bene. Andiamo in ordine: prima di tutto c’è l’aiuto da dare a popolazioni e Paesi da cui proviene drammaticamente l’immigrazione; poi viene il salvataggio dei disperati che tentano la fuga per arrivare in Europa; poi c’è la dignitosa prima accoglienza da garantire loro; poi coloro che possono rimanere debbono essere integrati nella nostra società. Solo parallelamente a questo percorso virtuoso si può pretendere il doveroso rispetto dei valori e dei principi che stanno alla base del nostro vivere civile e democratico. Penso soprattutto al rispetto della dignità femminile, al rifiuto della violenza, all’ordine pubblico, alla convivenza pacifica.