Si potrebbe paradossalmente dire ormai che, se uno non è intercettato, vuol dire che non vale niente: dacci oggi la nostra intercettazione quotidiana. L’abnorme uso di questo strumento investigativo è tale da mettere a repentaglio troppi diritti e troppi doveri (libertà, privacy, onorabilità, immagine, etc.)
Si va dalla discutibile inflazione nel disporle da parte della magistratura (che addirittura se le contende tra procure) alla colposa o dolosa divulgazione, dalla distratta se non scorretta trascrizione delle registrazioni al mantenimento in essere anche di quelle irrilevanti ed inutilizzabili dal punto di vista giudiziario. Molti sorridono sotto i baffi considerando inevitabile la fuga di notizie e veline, altri arrivano a teorizzare l’utilità democratica della surrettizia conoscenza di questo spaccato affaristico emergente anche in assenza di reati e indipendentemente dagli stessi, altri esigono e sperano che, sulla scorta del rischio sputtanamento, ci si comporti in modo più austero e inappuntabile: in buona sostanza se anche girano documenti e notizie coperte dal segreto non è male perché sarebbe l’unico modo per far conoscere i retroscena della gestione del potere e arginare preventivamente i peccati della politica e dell’establishment (uso questo termine che significa tutto e niente). .
Solo la magistratura in combutta con i media giustizialisti potrebbero salvare la nostra società corrotta: una teoria delirante a cui fa da comodo alibi l’esperienza del berlusconismo (non operando volutamente le dovute distinzioni quantitative e qualitative). Al cavaliere disarcionato fanno dire: «Son io che vi fa scaltri. L’arguzia mia crea l’arguzia degli altri», come Falstaff dopo i suoi fallimentari raggiri e le disastrose malefatte. Cosa voglio dire? Da una parte v’è chi si prende la rivincita: quando Berlusconi e i suoi sostenitori gridavano al complotto, alla invadenza, alla vessazione, alla necessità di difendersi dal processo, non sbagliavano di molto; adesso molti si stanno convertendo al garantismo nella misura in cui l’attacco della magistratura alla politica si fa sempre più scoperto e generalizzato. Dall’altra parte chi sostiene la continuità del regime berlusconiano sotto mentite spoglie e plaude indiscriminatamente all’opera moralizzatrice dei giudici non preoccupandosi minimamente di gettare l’acqua sporca della corruzione assieme al bambino della democrazia.
Chi si autoassolve in nome dell’invadenza della giustizia, chi cavalca il clima di caccia alle streghe, chi fa il tifo per le procure e chi le considera non tanto un corpo separato ma un corpo estraneo a livello di poteri democratici. Giustizialismo contro garantismo.
Possibile che non se ne possa uscire? Tutti ladri, tutti corrotti, tutti imboscati, tutti in conflitto d’interesse, tutti coinvolti nel marasma? Se non ritroviamo il filo della matassa rischiamo grosso. Bisogna innanzitutto riportare le procedure giudiziarie, dal punto di vista legislativo e comportamentale, nell’alveo della legalità: se i primi a violare la legge o a consentire che venga violata sono i magistrati… Ho recentemente ascoltato un ex magistrato che ha affermato come un procuratore, che voglia difendere la segretezza degli atti del suo ufficio, sappia benissimo chi sono i soggetti che possono violarla e possa quindi agire di conseguenza disponendo gli opportuni controlli e colpendo le eventuali violazioni.
La politica deve trovare l’irreprensibile stile previsto dall’articolo 54 della Costituzione: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
La stampa deve deontologicamente, prima e più che legalmente, trovare il confine tra sacrosanta denuncia del malaffare e strumentale gusto scandalistico, tra obiettività delle notizie e gogna mediatica.
I cittadini devono capire che è colpevole chiedere protezioni, raccomandazioni, favori, per poi buttare la croce addosso a chi si lascia irretire da questi meccanismi clientelari. O ci diamo tutti una “regolatina etica” o saranno guai seri e saremo, per dirla sempre con Falstaff, “tutti gabbati”.