Si fa un gran parlare dell’Italia che esce dal referendum costituzionale come un Paese spaccato a metà. Mi sembra l’uovo di Colombo. Se al corpo elettorale sottoponi la soluzione ad un problema, evidentemente controverso e delicato, è normale, oserei dire democratico, che i cittadini si dividano tra il Sì e il No. Se non fosse così saremmo ai referendum farsa, da cui certi regimi attingono consenso acritico o, peggio ancora, sostegno populistico. La riforma costituzionale, inquadrabile in un contesto riformatore indubbiamente avviato dal governo Renzi, crea una spaccatura nel Paese molto diversa da quella a cui alludono i commentatori politici (con l’argomento della spaccatura e con gli effetti a livello governativo dell’esito referendario si sono garantiti fiumi d’inchiostro e fior di compensi giornalistici), quella tra conservatori e rinnovatori, tra chi è pregiudizialmente contro il nuovo per una difesa di interesse personale e/o corporativo e chi è disponibile, senza facili illusioni, a considerare il cambiamento come opportunità. È paradossale imputare alla riforma costituzionale l’avvelenamento dei pozzi della politica italiana, quando tale riforma, almeno in teoria, tenta di rendere le istituzioni più moderne e quindi più vicine ai tanti problemi del Paese. Se un cittadino pensa che questa riforma non aiuti le istituzioni o addirittura le peggiori può votare tranquillamente NO, senza nulla togliere a chi ritiene di approvare tale legge e viceversa. Dov’è il veleno? La tossicità è provocata semmai da chi ne vuol trarre strumentalmente uno specchio deformato della società, non tanto sul piano del rafforzare o mandare a casa Renzi, che tutto sommato costituisce un intento forzato ma politicamente sopportabile, ma nel senso di squalificare la riforma quale subdolo tentativo di costituzionalizzare, in senso antidemocratico, dirigistico e speculativo, i processi decisionali e gestionali. Facendo una rapida rassegna mentale delle motivazioni conclamate dei propagandisti del No, emerge questo tentativo quale collante delle pur diversificate posizioni ideologiche, politiche, economiche e sociali: il minimo comune denominatore è l’ideologizzazione del No, inteso, pur nella diversità di sfumature e sottolineature, come difesa contro l’establishment dei nemici della democrazia.I problemi del Paese sono a monte del referendum, vengono da lontano, hanno radici economiche, sociali, interne, internazionali, italiane, europee: mi sembra di poterle sintetizzare nella estrema difficoltà di coniugare il mondo nuovo (da cui non si torna indietro, checché ne pontifichino i populisti italiani, europei e americani), connotato all’apertura, alla concorrenza e alla competizione, con le sacrosante esigenze di non emarginare, trascurare e dimenticare nessuno.C’è chi tra gli elettori ed i potenziali eletti si lascia condurre dalla rabbiosa tentazione di chiudersi (nel proprio egoistico patrimonio, nella propria famiglia, nella propria categoria, nella propria nazione, nei propri problemi, nella propria azienda, nella propria regione etc.) e chi, nonostante tutto, vuole affrontare le situazioni allargando l’orizzonte oltre i propri confini mentali, umani, geografici, sociali ed economici. Sono due visioni a confronto: nei primi c’è la forte tentazione di squalificare i secondi; nei secondi c’è la storica presunzione di banalizzare i primi. Ci può scappare il veleno!Il riformatore riformatoSe ad ogni tentativo di riforma si risponde con la disfattistica e cavillosa contestazione da parte dei massimi organi di controllo, andremo ben poco lontano, anzi ci fermeremo subito con enorme sollievo di chi tifa disperatamente per la conservazione fine a se stessa. È successo con la riforma della pubblica amministrazione, per la quale la Corte Costituzionale esige una preventiva e unanime concordanza regionale; è successo con la riforma delle banche popolari, per la quale la Corte dei Conti intravede gravi violazioni tali da bloccare il tutto e mettere i punti controversi all’attenzione della Corte Costituzionale. Sembra il gioco dell’oca! Che questi altolà siano venuti ala vigilia del referendum lascia oltretutto qualche ulteriore dubbio. Forse si vuole dimostrare che gli attuali organi (parlamento e governo) non sono capaci di legiferare e non meritano alcuna attenzione e fiducia? I poteri e la struttura di questi organi di controllo non viene minimamente toccata. Meno male, altrimenti si sarebbe gridato al golpe costituzionale (fra le tante fregnacce questa non l’ho sentita). Molto tempo fa il ministro della riforma burocratica Massimo Severo Giannini, dopo qualche tentativo andato a vuoto, vista la difficoltà al limite dell’impossibilità di cambiare le cose, diede le dimissioni preannunciando di voler emigrare negli Usa. Giustamente l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini lo rimproverò aspramente. Avevano ragione entrambi!La società scollegataIl Censis ci offre una fotografia piuttosto scontata della società italiana, dominata da sfiducia nel futuro: della serie chi ha i soldi se li tiene ben stretti e non li investe; chi vuole arrotondare lo fa puntando a redditi sommersi derivanti da impieghi patrimoniali a livello meramente speculativo; chi non trova lavoro si rassegna al precariato, magari poco qualificato e poco produttivo; i giovani sono sempre più poveri rispetto ai loro genitori e soprattutto rispetto ai loro nonni; la società non ha fiducia nei corpi intermedi e quindi non riesce ad avere una rappresentanza; tutti, ricchi o poveri, puntano a fare da sé. Non è un quadro esaltante. Credo che si stia effettivamente alzando un muro tra le generazioni: quelle protette e quelle in cerca di futuro. Il collegamento, fin che il tempo lo consentirà, è stato pragmaticamente approntato a livello famigliare: bamboccionismo e fuga di cervelli a parte, genitori e nonni sostengono la precaria vita dei loro figli e nipoti ancorché non più in tenera età. Ma il collegamento non è stato avviato a livello politico: siamo passati da un welfare ultraprotettivo ad un sistema del si salvi chi può; dal lavoro stragarantito al lavoro straprecario; da un sistema economico fondato su imprese decotte e traballanti ad un futuro economico in potere della digitalizzazione e dell’innovazione tecnologica. Per passare al nuovo mondo stiamo imparando a camminare su una fune: il problema è che sotto non c’è la rete… Qualcuno se la prende con la globalizzazione, qualcun altro con gli immigrati extra-comunitari, altri con l’Europa, altri ancora con le banche, chi con la sinistra incapace di farsi carico dei problemi, chi con la politica in genere totalmente distaccata dalla realtà. Poi si esce al sabato sera e cadono i muri: a mezzanotte il traffico impazza tra movide, discoteche, ristoranti, teatri, cinema, etc. Lo chiamo mistero della crisi. E la situazione però non migliora, anzi peggiora perché forse stiamo fuggendo dalle nostre responsabilità, facciamo finta che…