La scena politica mondiale termina il 2017 con un malinconico e nostalgico addio a Barak Obama, mentre il sipario che si apre sul 2018 ha tutto il sapore di un inquietante salto nel buio trumpiano.Ho imparato, da fin troppo tempo, a non inserire alcun elemento di tifoseria nelle mie opzioni politiche. Ho nutrito grande fiducia e speranza verso la presidenza americana di Obama e valuto molto positivamente il suo operato, che non considero solo alla luce dei risultati immediati, ma di alcune direzione innovative tracciate: basti pensare al disgelo dei rapporti con Cuba, all’apertura di dialogo con l’Iran, al coinvolgente ma rispettoso confronto con l’Unione Europea, alle aperture sociali nella politica interna, all’approccio non bellicista verso le dirompenti questioni internazionali. Credo che Obama passerà alla storia più per le cose non fatte ma che avrebbe voluto fare, piuttosto che dei risultati concreti raggiunti. La storia ha tempi lunghi e chi semina molto spesso non raccoglie. La consapevolezza del pesante ruolo degli USA sullo scacchiere internazionale non gli ha impedito di impostare la sua presidenza all’insegna del dialogo e del confronto rispettoso con gli amici e con gli avversari. Se Obama ha seminato, c’è il rischio che chi viene dopo di lui spazzi via tutto (l’emblematico orto di Michelle consegnato alla improbabile giardiniera Melania).La valutazione positiva di questi otto anni di Obama viene purtroppo oltremodo accentuata dalle prospettive molto preoccupanti riguardo al suo successore, quel Donald Trump che fa letteralmente tremare le vene ai polsi.La politica ridotta ad affarismo e populismo combinati in una miscela incredibilmente pericolosa e antistorica: ambiente messo nelle mani dei petrolieri, asse privilegiato con Putin, provocatoria sottovalutazione del ruolo cinese, netta presa di distanza verso l’Europa, isolazionismo politico, protezionismo economico, chiusura a livello delle migrazioni. Se qualche commentatore sostiene che la presidenza Obama sia stata un bel libro dei sogni, la presidenza Trump si profila come un ben triste risveglio al suono ripetitivo di tutti i peggiori “ismi” della storia.Sembra quasi che il presidente uscente voglia segnare con alcune forti prese di posizione una preventiva discontinuità rispetto alle prevedibili mosse del suo successore, rendendogli la vita difficile, ponendolo di fronte a situazioni da cui sia assai problematico tornare indietro: l’atteggiamento finalmente deciso e chiaro a livello Onu nei rapporti israelo-palestinesi, contrario a nuovi insediamenti degli ebrei in casa degli arabi e all’occupazione perpetua dei territori e favorevole alla soluzione dei “due Stati”; il divieto delle trivellazioni petrolifere in ampi tratti delle coste americane a coronamento di un lungo impegno sul cambiamento climatico; nuove sanzioni economiche e operazioni di rappresaglia contro l’invadenza russa a subdolo sostegno di Trump durante l’ultima campagna elettorale negli USA. Si pensi che Igor Sechin, plenipotenziario della compagnia petrolifera russa Rosneft, ex collega di Putin nel Kgb e poi suo braccio destro al Cremino, diventato il boiardo più potente della Russia, è grande amico di Rex Tillerson, il boss di Exxon Mobil, scelto da Trump come segretario di Stato.In questi, ma anche in altri atti e pronunciamenti, si legge la chiara volontà di Obama di segnare un confine, una linea di demarcazione, lasciando a Trump la responsabilità di invertire la tendenza. La dichiarazione inerente la sua virtuale vittoria qualora fosse stata possibile una seconda ricandidatura, la sovraesposizione mediatica di sua moglie Michelle, la sua tendenza finale a esporre senza ritegno il proprio pensiero sono tutte evidenti intenzioni di influenzare il giudizio della storia nel senso di dare l’idea di una tempestiva e netta presa di distanza rispetto all’imminente ciclone Trump. Se non è una dimostrazione personale di fair play, né di maturità democratica per gli USA, è almeno la finale rivendicazione di una diversità, la voglia di uscire a testa alta e la estrema, quasi disperata, volontà di porre qualche limite invalicabile all’invadenza del tykoon.Qualcuno reagisce superficialmente alla paradossale scelta elettorale americana facendone ricadere sugli statunitensi gli effetti: della serie “si arrangeranno…”. Ci arrangeremo tutti, anche senza averlo votato. Lui, che ha raccolto consensi promettendo una reazionaria rivisitazione della globalizzazione, ci obbligherà a fare i conti con lo spettro globalizzante della sua cattiva politica.Se è vero, come ha detto Obama l’indomani della vittoria elettorale di Trump, che il sole continuerà comunque a sorgere, sull’alba dei prossimi anni incombe la fitta nebbia del trumpismo. Sì perché oltretutto Trump non è un fenomeno isolato, ma causa/effetto di un movimento che trova seguaci, imitatori e collaboratori sparsi in tutto il pianeta.Se tra il dire e il fare di Obama ci sono stati di mezzo tanti mari contrari, temo che tra il dire e il fare di Trump possano esserci tanti venti favorevoli.Un bagno di (in)sano pessimismo ci prepara al 2017: buon anno!