Chiedo scusa se, per affrontare il tema del sacrosanto diritto ad una morte dignitosa, parto da una barzelletta che viene da una fonte “autorevole”, vale a dire da don Andrea Gallo. Era stato invitato a Parma al Festival della poesia, per portato Angelicamente anarchico, lo spettacolo che Cinzia Monteverdi aveva tratto dal suo libro con le canzoni di De André. Qualche tempo dopo il suo amico don Luciano Scaccaglia lo informò che il vescovo si era scandalizzato perché alla fine aveva detto al pubblico: «Siete stati talmente bravi che adesso vi racconto una barzelletta». La raccontò sul serio.
La espose così: «Voi sapete che nella nostra Santa Madre Chiesa, uno dei dogmi più importanti è la Santissima Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’amore e la comunione vanno in tutto il mondo, e si espandono. Lo Spirito Santo dice: “Andiamo a farci un giro. Io sono affascinato dall’Africa”. Il Padre risponde: “Be’, io andrò a vedere il paradiso delle Seychelles. Perché non capisco come mai i miei figli e figlie hanno il paradiso in terra”. Gesù ascolta e non risponde. Allora gli altri due: “Tu non vai?” Gesù: “Io ci son già stato duemila anni fa”. “Non ci farai mica far la figura che noi andiamo e tu rimani”, gli dicono in coro il Padre e lo Spirito Santo. “Va be’, allora vado anch’io”. “Dove vai?” “A Roma”. “Sì, ma a Roma dove vai?” “Vado in Vaticano”. “In Vaticano?”, dicono increduli il Padre e lo Spirito Santo. Gesù risponde: “Eh sì, non ci sono mai stato”».
Mi torna spesso alla mente e non ho potuto evitare di ricordarla in concomitanza con il recente pronunciamento di monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita. Già l’etichetta mi procura un irresistibile prurito allergico, ma lasciamo perdere. Di fronte allo straziante appello di una persona che da dieci anni vive a letto paralizzato da una lesione del midollo spinale dovuta a un incidente e che invoca il suo diritto a morire tramite un farmaco letale idoneo a garantirgli la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile, il potere politico fa il pesce in barile e il potere religioso risponde spaccando il cappello in quattro per salvare la capra del dogmatismo e i cavoli dell’umana sofferenza.
Monsignor Paglia, entrando nel dibattito pubblico, afferma che la Chiesa non ha interesse «ad alcuna battaglia astratta sul tema eutanasia». Certo non può «avallare che si tolga la vita a chiunque e, ovviamente, che nessuno se la tolga da se stesso». Ma riconosce che «un conto è uccidere e un altro conto è lasciar morire», nel senso che «va evitato l’accanimento terapeutico».
Se Gesù, tanto per proseguire l’acuta ironia di don Gallo, arrivasse in Vaticano e ascoltasse le suddette paroline “blizgose”, direbbe: “Voglio andare a visitare l’ammalato. Non dice così l’opera di misericordia materiale che voi avete scritto nel catechismo? E voi andate al capezzale di questi malati così sofferenti e disperati? Preferite pontificare, disquisire. Io non ero venuto in terra per darvi una dottrina, ma per trasmettervi uno stile di vita che mette al primo posto l’amore a Dio e al prossimo. Datevi una mossa e smettetela di vomitare teorie astratte”.
Gli risponderebbero che di eutanasia non si può parlare e che anche il suicidio assistito è un peccato imperdonabile contro la vita. Gesù, trascinato farisaicamente in una falsa diatriba li incalzerebbe: “Se mio fratello, dopo dieci anni di tormenti, non ne può più e non si accontenta delle cure palliative, ma vuole chiudere coscientemente la sua esistenza terrena, posso io imporgli ulteriori sacrifici in nome di principi astratti?”.
I teologi, che la sanno lunga, ribatterebbero: “A noi non è concesso dare la morte a nessuno. La legge dice ‘non uccidere’ e questo comandamento tu lo hai reso ancor più rigido. Come possiamo ammettere che una persona metta fine alla propria vita, sacra e inviolabile?”.
E Gesù si spazientirebbe e concluderebbe: “Io conosco bene il Padre mio e posso accusarvi di trasmettere l’idea di un Dio che giudica gli uomini con un cronometro in una mano ed un’enciclopedia medica nell’altra. Indro Montanelli, laico impenitente, le chiamava giustamente “beghe di frati”. In verità, in verità vi dico che il Padre mio e Padre vostro, quando questo fratello avrà ottenuto di chiudere la sua vita dopo enormi e insopportabili sofferenze (a proposito, io di sofferenze me ne intendo molto più di voi…), lo accoglierà e lo abbraccerà piangendo e gli sussurrerà: «Vieni figlio mio, ti aspettavo da tanto tempo e perdona se, i miei rappresentanti in terra, ti hanno messo sulle spalle un peso che loro non sfiorano neppure con un dito. Adesso è tutto finito e speriamo che la tua vicenda possa essere di qualche insegnamento per gli scribi e i farisei annidati in Vaticano. Sto aspettando la relazione che Gesù mi farà dopo essere stato per la prima volta nelle sacre stanze. Temo che mi riferirà cose molto spiacevoli…»”.