Le lacrime di olimpiodrillo

Non vorrei passare da novello “trinariciuto”. Per chi non lo sapesse o non lo ricordasse era l’epiteto fortemente spregiativo coniato dal giornalista e scrittore Giovanni Guareschi nell’immediato secondo dopoguerra per gli iscritti al partito comunista, per la loro presunta acritica credulità e sudditanza alle direttive del partito (e perciò raffigurati con tre narici, come esseri “diversi”, quasi di un altro mondo). E nemmeno da “bastian contrario”, vale a dire da colui che assume per partito preso le opinioni e gli atteggiamenti contrari a quelli della maggioranza.

Sono infatti sinceramente compiaciuto delle tante medaglie conquistate dagli atleti italiani alle olimpiadi di Tokio. Faccio però fatica a sgombrare il campo dai facili entusiasmi per trovare un significato a questo importante traguardo sportivo. Si tratta di un riconoscimento alle scuole delle varie discipline, all’impegno profuso nel tempo da tanti atleti nel nascondimento dei loro sacrifici, alla voglia di primeggiare portando spesso alla luce discipline quasi sconosciute e snobbate dal grande pubblico? Di tutto un po’.

Non accetto la retorica nazionalistica immediatamente imbastita su questi rilevanti successi, mi irrita e insospettisce il clamore mediatico incapace di andare oltre la scorza trionfalistica per cogliere in profondità gli aspetti umani riconducibili ai vincitori ed ai vinti, mi trova perplesso la lacrimazione facile degli atleti e dei loro staff.

Qualcuno si affretta a collegare lacrime e amor di patria: una enfasi pericolosissima e fuorviante. Altri trovano una compensazione sportiva ai drammi umani e sociali che stiamo vivendo. Mio padre, con la sua (in)solita verve contro corrente, direbbe: “Còj ca vénsa is consolon e còj ca perda dòvrissni dispreros?” (chiedo scusa del dialetto approssimativo ma significativo).

La commozione, peraltro un po’ troppo esibita, ci sta tutta, va colta ed apprezzata quale espressione di una ritrovata sensibilità umana e sportiva. Molto più genuine e pulite le lacrime degli olimpionici di quelle prezzolate dei big calcistici in presuntuosa e populistica passerella post-europea.

L’uomo e la donna hanno il diritto-dovere di piangere per sfogare le proprie emozioni, comunicandole agli altri in un virtuoso scambio di umani sensi. Non vorrei però che il tutto rimanesse superficialmente limitato alle gioie e fosse rigorosamente vietato per le sofferenze. La catena emozionale dovrebbe funzionare anche e soprattutto nei momenti e negli eventi tristi, drammatici e tragici, che invece molto spesso vengono archiviati con un’alzata di spalle. Le lacrime di gioia sì, quelle di dolore no. Le prime servono a esorcizzare le seconde; le prime danno la carica, le seconde comunicano sconforto.

Non sappiamo nemmeno piangere. D’altra parte nella prassi educativa c’è il perentorio invito a non piangere, a relegare le lacrime nella debolezza delle femminucce, a confondere il pianto con i piagnistei. Gli atleti che si commuovono escono rafforzati nella loro umanità. Va molto bene, purché non si ammettano le lacrime solo a comando e solo per fare un po’ di spettacolo in più.

Nella nota preghiera mariana del “Salve regina” si recita: “A te sospiriamo, gementi e
piangenti in questa valle di lacrime”. Può sembrare un’esagerazione, invece è o dovrebbe essere una constatazione. Si usa dire “ridere per non piangere”, sarebbe invece ora di puntare a “piangere per non ridere”.