Mentre il Regno Unito fa i conti con quella che viene definita “variante inglese” del Covid, a Londra va in scena una notte senza freni. Sabato sera, poche ore prima dell’entrata in vigore delle restrizioni decise dal governo, a Oxford Street si è scatenato un party con musica e balli, al quale si sono aggregate decine di persone molte delle quali senza mascherina. Nel pomeriggio la capitale aveva visto sfilare cortei di manifestanti che contestavano il lockdown.
Come ho più volte ricordato e scritto, il presidente Sandro Pertini sosteneva, in un ammirevole mix di realismo, patriottismo e riformismo, che il popolo italiano non è né primo né secondo agli altri popoli. In questi giorni ci stiamo giustamente esercitando nell’impietosa critica verso gli scriteriati comportamenti italiani in piena ondata pandemica: si sta facendo il bagno in un mare agitato nonostante le numerose bandiere rosse che mettono in guardia dai rischi. Poi guardiamo oltre i confini nazionali e troviamo (s)consolanti esempi da non imitare. Tutto il mondo è paese! Mal comune mezzo disastro!
Che nessuno quindi ci venga a fare la ramanzina di turno, anche se meriteremmo punizioni esemplari e dolorose. Sembra proprio che tutto il mondo reagisca al disastro, sempre più articolato e complesso, rifugiandosi nell’evasione totale, negando l’evidenza, festeggiando la provvisoria immunità. Trèr èl prêt intla mèrda, (letteralmente “buttare il prete nella merda”) ha il significato di rompere gli indugi, prendere una decisione drastica, come dire “o la va o la spacca”. Questo modo di dire sembra prenda origine da uno scisma della chiesa africana appena dopo il 400 d.c. È l’atteggiamento che molti in Italia e altrove stanno assumendo.
Quando all’inizio della pandemia si discuteva delle conseguenze sociali che essa avrebbe avuto, qualcuno, in pieno delirio di umana onnipotenza, ipotizzava che “sarebbe andato a finire tutto bene”; altri, in vena di moralismo spicciolo, sostenevano che “niente sarebbe stato come prima”. Come sta andando? Siamo completamente fuori dalle suddette profezie, stiamo facendo finta di niente, stiamo rimuovendo l’ostacolo: la globalizzazione dell’insensatezza. Non solo siamo indifferenti alle disgrazie altrui, ma siamo indifferenti anche alle nostre disgrazie. Una sorta di sadomasochismo da Covid 19 e sue varianti.
Non ci mancavano più che le feste natalizie per spingere la gente all’assurda reazione della sbornia collettiva. A proposito di ubriacatura ricordo una simpatica barzelletta di uno storico personaggio di Parma, Stopàj. Questi, piuttosto alticcio, sale in autobus e, tonificato dall’alcool, trova il coraggio di dire impietosamente la verità in faccia ad un’altezzosa signora: «Mo salä che lè l’è brutta bombén!». La donna, colta in flagrante, sposta acidamente il discorso e risponde di getto: «E lu l’è imbariägh!». Uno a uno, si direbbe. Ma Stopaj va oltre e non si impressiona ribattendo: «Sì, mo a mi dmán la me pasäda!». Gli italiani guardano la situazione e la trovano molto, troppo brutta, allora le si rivolgono contro assumendo toni disinibiti da ubriaco per farsi coraggio, con una differenza sostanziale: l’ubriacatura generale non dura solo un giorno, si protrae nel tempo e tutti sappiamo i danni irreversibili che può provocare.
Mio padre non era un patito del vino genuino e nostrano e non comprendeva parenti e amici che si cimentavano nella “pigiatura” casalinga (“al vén fat coj pè”, nel senso di fatto male), in quanto sosteneva che ognuno deve fare il proprio mestiere senza oltretutto correre il rischio “ ‘d bèvor par tutt l’an un vén ch’a sa ‘d bòtta” e intendendo quindi dare assoluta priorità al palato rispetto alla tracciabilità del prodotto. Tuttavia una volta si piegò alle insistenze di mia madre e portò a casa una damigiana di vino da imbottigliare. Lo aiutai maldestramente nelle operazioni. Ogni tanto capitava di avere a che fare con una bottiglia che non ne voleva sapere di essere tappata o meglio a un tappo che non voleva entrare nel collo di bottiglia e opponeva resistenza, costringendoci ad un supplemento di sforzo per riuscire nell’intento. Fui sorpreso dalla battuta con cui mio padre accompagnava lo sforzo stesso: «Maledètt ti e chi a t’ cavrà», diceva tra i denti rivolto al tappo in questione. Mi stupii, perché non era solito imprecare a vanvera e gli chiesi il perché di questo sfogo. Mi spiegò che aveva imparato da suo padre a premunirsi dalla maledizione di chi avrebbe stappato la bottiglia e che presumibilmente avrebbe esclamato: «Maledètt ti e chi a t’ gh’à miss».
Stiamo né più né meno tentando di esorcizzare coi fumi consumistici un futuro tragicamente problematico. Malediciamo il virus, ma beviamo a gola aperta il vino sofisticato dell’oblio. In vino veritas: è proprio vero. Quello della sbornia collettiva, che stiamo prendendo, ci dice tutta la verità sulla nostra inconsistenza umana. Tentiamo di affogare i nostri dispiaceri presenti e futuri: non ci riusciremo, ma l’importante è provarci e illudersi di farcela. Qualcuno arriva a pensare che la sbornia vera e propria sia quella della paura del virus. Paradossale partita. Sbornia contro sbornia: uno a uno.