I fioristi di destra vendono anche Garofani rubati

Garofani dipinge un quadro chiaro. Se il contesto politico restasse quello attuale, Giorgia Meloni sarebbe destinata al Quirinale. Lo dice quasi sorridendo, sì, ma come chi sta dicendo una cosa che lo preoccupa parecchio. E soprattutto aggiunge un dettaglio non irrilevante: «In quell’area non c’è nessuno adeguato». Tradotto: Meloni è l’unica. E questa unicità, secondo il consigliere del Colle, sarebbe un problema. Poi c’è il calendario, già definito. Si voterà nella tarda primavera del 2027, probabilmente maggio. Manca un anno e mezzo. Un’era geologica per la politica. Ma al Colle — è questo il punto — non sembrano così convinti che il tempo basti a cambiare gli equilibri, se non interviene qualche provvidenziale scossone. Non a caso Garofani si lascia scappare un commento che racconta un mondo: «Speriamo che cambi qualcosa prima delle prossime elezioni, io credo nella provvidenza. Basterebbe una grande lista civica nazionale». Non proprio una dichiarazione di neutralità istituzionale. E ancora. Per la costruzione di un nuovo centrosinistra, un “nuovo Ulivo”, Garofani vede in Ernesto Ruffini — ex grande capo dell’agenzia delle Entrate, da qualche mese in campo — una pedina utile. Ma non sufficiente. «Serve un intervento ancora più incisivo di Romano Prodi» dice. L’ex Professore, che evidentemente per il Quirinale non è solo una reliquia, ma ancora un potenziale regista politico in grado di rimettere insieme i cocci di un’opposizione incapace di alzare lo sguardo oltre i propri litigi.

Il consigliere arriva anche a toccare il terreno delle previsioni impossibili. Esagera perfino per gli standard dei retroscena: «Se non fosse morto, oggi il premier sarebbe David Sassoli o lo sarebbe dalla prossima legislatura». Una frase che peraltro è un’ammissione di debolezza degli attuale leader del centro sinistra: senza un leader moderato, europeo, rassicurante per l’establishment, l’Italia ha preso un’altra direzione. Indovinate quale. Il tutto, ripetiamolo, non in un’intervista né in una sede ufficiale. Ma in quella zona grigia dove i consiglieri parlano “a titolo personale” e intanto, però, mandano messaggi in bottiglia destinati a chi li deve capire.

Il punto politico, infatti, è questo: Garofani non è un opinionista qualsiasi, ma un consigliere di Mattarella, peraltro su dossier delicatissimi. E quando uno così arriva a prefigurare Meloni al Quirinale come un incubo istituzionale e a invocare «provvidenze» politiche contro il governo in carica, qualche domanda bisognerebbe porsela. Il Colle, insomma, non appare affatto indifferente al risiko politico che porterà al nuovo Capo dello Stato. E sta osservando, valutando, probabilmente orientando». (dal testo dell’anonima mail/articolo giunta alle redazioni di alcuni giornali)

L’analisi emergente da queste confidenze rubate al funzionario quirinalizio Francesco Saverio Garofani, a prescindere dalla sua inopportunità, dall’equivoco scatenato ai danni del Presidente Mattarella e dalla strumentalizzazione fattane dalla stampa di orientamento filogovernativo, è (quasi) lapalissiana.

Che Giorgia Meloni punti al Quirinale, passando attraverso una vittoria elettorale nel 2027 e rilevando Sergio Mattarella alla scadenza del suo mandato bis che scade nel febbraio 2029 salvo rinuncia da parte del Presidente stesso, è cosa nota a tutti coloro che abbiano un minimo di dimestichezza con le matasse politiche.

Che la candidata non possa essere che lei in rappresentanza del centro-destra è altrettanto evidente dal momento che non esistono candidature forti provenienti da quell’area, a meno che non si voglia fare sessantuno con Ignazio La Russa facendogli fare le pulizie di casa.

Che la riforma costituzionale, approvata dal Parlamento e in bilico referendario, punti a legalizzare la prospettiva di cui sopra è sotto gli occhi di tutti: per Giorgia Meloni è pronto un Palazzo Chigi populisticamente rinforzato in attesa di un Quirinale istituzionalmente depotenziato e occupato dalla madre della Patria.

Le prospettive di conferma del centro-destra nella primavera del 2027 sono abbastanza sicure. Due sono le eventualità che potrebbero mettere in discussione questa che sembra essere una vittoria più che annunciata: un rigurgito di vitalità del centro-sinistra e/o un qualche disastro provocato dall’attuale governo o subito comunque dal Paese.

Sulla ripresa politica del centro-sinistra gravano l’assenza di leadership credibile e una grave debolezza programmatica: mi sembrano piuttosto fantasiose le ipotesi di una discesa in campo di Ernesto Ruffini patrocinata da Romano Prodi. Non è più tempo di esperimenti…

In conclusione Garofani non fa che mettere in fila gli elementi sul tavolo: non ci vedo nulla di strano e di sconvolgente, salvo forse il fatto che gridare al lupo non serve a conquistare consensi e voti. Tuttavia sono fra quanti pensano che la legittimazione strisciante di un centro-destra fascisteggiante vada denunciata con etica indignazione e politica preoccupazione.

Garofani però, seppure in buona fede, esprime le sue preoccupazioni incautamente e in pubblico: sta tutto qui il punto dolente. Non vedo niente di golpista nel fatto che un consigliere del Presidente della Repubblica dia a Mattarella consigli (non è forse il suo mestiere?) basati su un certo tipo di analisi politica. Starà al Presidente farne l’uso che riterrà a sua discrezione e valutazione. Se questi consigli riservati vengono sgangheratamente resi pubblici è responsabilità di colui che lo rende possibile, il quale, a mio giudizio, dovrebbe trarne semmai le conseguenze.

Non sono oltre tutto affezionato all’immagine del Presidente della Repubblica quale mero arbitro istituzionale: non è questo il ruolo che gli affida la Costituzione. Non è un notaio che registra gli andamenti sociali, economici e politici; è un personaggio al di sopra delle parti che però osserva cosa combinano le parti; un garante degli interessi del popolo italiano a cui è chiesto di concretizzare queste garanzie non lasciandole nel limbo delle buone parole.

Su questo piano Mattarella è ineccepibile e inattaccabile, non c’è Belpietro che tenga, non c’è sgrammaticatura protocollare che possa (dis)turbarlo. I Garofani non inquinano i giardini del Quirinale. I veleni, sparsi a piene mani da un centro-destra che basa le sue fortune sulla continua invenzione di attacchi, sulla fantomatica presenza di nemici, hanno raggiunto il Quirinale senza peraltro che nessuno se ne assuma la responsabilità: hanno gettato un sasso e poi si sono preoccupati di nascondere la mano. È rimasto Belpietro a fare la figura del coglione: non fa fatica a ricoprire questo ruolo.

Se Mattarella riuscisse, dall’alto della sua moral suasion, del suo prestigio internazionale, del suo consenso popolare, della sua fulgida storia personale, a dare una benefica scossa alla politica a tutti i livelli, sarebbe un fatto più che auspicabile. In fin dei conti è quel che sta facendo dal 2015 in poi. Non si può che ringraziarlo accogliendo i suoi inviti.