La Speranza nella Pace nonostante Trump

In questi giorni quante volte ci si è chiesto cosa sarebbe andato storto, quali sarebbero state le trappole, gli inciampi e le provocazioni che avrebbero fatto deragliare per l’ennesima volta le trattative per un cessate il fuoco a Gaza, facendo continuare la strage indicibile di donne, bambini e uomini palestinesi e protraendo la lunghissima prigionia degli ostaggi israeliani ancora vivi. E invece, a dispetto di ogni dubbio, abbiamo la firma per un cessate il fuoco che rappresenta il primo passo – solo il primo fra i tanti necessari – per arrivare a una pace stabile in Medio Oriente. E lo dobbiamo soprattutto alla volontà dell’attore più improbabile, a cui si dava poco o nessun credito: il presidente statunitense Donald Trump, il quale ha quasi letteralmente costretto il governo di ultra-destra israeliano a fermare il suo esercito, andando a stanare i leader dei Paesi arabi e islamici che in questi due anni, con poche eccezioni, si erano nascosti dietro una cortina di prudenza e di dichiarazioni formali.

Poco conta se la spinta per Trump ad agire e a volere a tutti costi la fine della guerra viene non sia venuta tanto dalle sofferenze degli abitanti di Gaza, quanto dalla sua voglia irrefrenabile di ricevere il Nobel per la Pace; a cui si è aggiunta l’irritazione seguita al folle bombardamento della capitale del Qatar da parte di Israele, che ha umiliato un alleato fondamentale per gli Usa e un partner per gli affari privati della sua famiglia. Ma quale che sia la motivazione, è assolutamente evidente che senza Trump non si sarebbe firmato questo accordo. (“Avvenire” – Riccardo Redaelli)

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C’è un piano per la tregua. «E sono già pronti a sabotarlo». C’è un progetto per la pace duratura, «e faranno di tutto per non raggiungerla». Non accettano rilievi, perché «per loro chiunque contesta è un antisemita o alimenta l’antisemitismo». Anche il Papa, che invece «ha tutto il diritto di criticare Israele». Ehud Olmert non è quel che in politica si definisce “una colomba”.  Da fondatore del Likud, il partito di cui si è impadronito Netanyahu e dal quale è uscito per fondare Kadima, a vocazione centrista, resta una spina nel fianco del governo. Per una decina d’anni sindaco di Gerusalemme, propose di rinunciare alla giurisdizione sulla Città Vecchia per affidarla a un organismo internazionale. E da premier fu il più vicino, nel 2008, all’accordo per tramutare in realtà il progetto dei “due popoli e due Stati”. Lo raggiungiamo dopo una serie di precauzioni di sicurezza, ma una volta nel suo ufficio a Tel Aviv, fresco dei suoi 80 anni indossati con il consueto smalto, ha voglia di parlare di sogni, più che di ricordi.  

A questo punto dipenderà tutto da una sola una persona: Donald J. Trump. Se smetterà di dire le solite fesserie e si decide a sbattere i pugni sul tavolo, allora avremo un accordo. Dipende da lui. (“Avvenire” – Intervista all’ex premier israeliano Ehud Olmert)

“Sperànsa di mälvestì ca fâga un bón invèron”. MI sembra di poter sintetizzare così il pur comprensibile entusiasmo per la tregua che sembra raggiunta in ordine al conflitto-massacro-genocidio scatenato da Israele contro i palestinesi della striscia di Gaza, quale vendetta verso lo sciagurato atto terroristico di Hamas del 07 ottobre 2023.

Finalmente qualcuno ha messo alle strette il governo israeliano? Quale pace può scaturire dal trono di un potente che gioca spregiudicatamente sullo scacchiere internazionale? La realpolitik trumpiana potrà mai instradare seri percorsi di pace in assenza di giustizia fra i popoli?

Non voglio gufare, ma non ho alcuna speranza se non cambiano gli attori della scena internazionale: Trump aveva bisogno di un successo diplomatico (?) da sbandierare e (quasi) tutti ci stanno cascando (fortunatamente il Nobel per la Pace se lo è sognato…); Netanyahu stava esagerando seminando, tra l’altro, a piene mani l’antisemitismo; i Paesi arabi se la facevano sotto; i leader europei, come afferma l’ex premier israeliano Olmert, dopo il 7 ottobre 2023 hanno detto che Israele aveva pieno diritto di colpire i capi di Hamas, di ucciderli e distruggere Hamas senza considerare i “danni collaterali”, che hanno fatto loro letteralmente perdere la faccia e impacciare la coscienza.

Non ho idea degli sviluppi che potrà avere la situazione tra le contagiose sbruffonate di Trump e l’obtorto collo terroristico di Hamas, tra i sospiri di sollievo filo-trumpiani e il reciproco odio israelo-palestinese sempre più in agguato, tra sabotaggi e ripicche, tra vendette pseudo-religiose e aiuti pseudo-umanitari.

L’ora dello sconforto è l’ora di Dio. Non ci sono più speranze? Quindi è l’ora della Speranza…Finché si hanno ragioni si conta sulla ragione. Pessimismo e disfattismo sono di moda. Persino i cristiani vedono tutto nero, il che è la negazione stessa del cristianesimo: il cristiano non è autentico se non è un uomo di speranza.

“Spes contra spem” è una locuzione latina che significa “speranza contro speranza”. Si riferisce a un tipo di speranza che persiste anche quando tutto sembra perduto e deriva da un passo della Lettera ai Romani di San Paolo.

Vale anche per me, così portato al ragionato catastrofismo. D’altra parte come posso fare ad avere fiducia in un mondo gestito da delinquenti e criminali di stato e dai loro sottopancia internazionali? Il mondo però non è nelle mani di Donald Trump, l’Europa non è nelle mani di Ursula von del Leyen, l’Italia non è nelle mani di Giorgia Meloni, ma in quelle di Dio.

Ricordo come Giovanni Bianchi, ex presidente delle Acli ed esponente democristiano, dicesse che la forza della Chiesa verso la pace non sta tanto nella diplomazia vaticana, ma nelle preghiere delle vecchiette che sgranano il rosario e pregano per la pace senza sapere chi siano Putin, Biden, Trump, etc. etc.

Molto probabilmente la pur futile tregua entrata in vigore non è frutto degli accordi tra un delinquente (Trump) e un criminale (Netanyahu), ma delle preghiere delle vecchiette di cui sopra.

Mi sto sempre più convincendo che sia giunta l’ora di lasciare gli schemi tradizionali della politica per impegnarsi in altro modo: partire dal Vangelo, pregare sul Vangelo, testimoniare l’amore evangelico, guardare alle persone, aiutare chi soffre, allacciare rapporti di bene, valorizzare al massimo le nostre esperienze umane. Le scelte politiche verranno di conseguenza.

In questo periodo ho iniziato a recitare una o più volte al giorno la seguente preghiera suggerita dal cardinal Zuppi: “Signore, che ci hai creati e ci chiami a vivere da fratelli, che vieni sulla terra per portare luce nelle tenebre, dona al mondo la pace. Donaci la forza per essere ogni giorno artigiani della pace. Donaci la capacità di guardare con benevolenza tutti i fratelli che incontriamo sul nostro cammino. Infondi in noi il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace. Amen”.

É vero che, come sosteneva Paolo VI, la politica è la più alta forma di carità, ma, se prescinde dalla carità, come succede per la gran parte della politica attuale, deve ripartire dalla carità per trovare in se stessa la nobiltà dei suoi scopi e la serietà delle sue procedure.

Giorgio La Pira è stato un grande testimone della politica coniugata col Vangelo e viceversa.

Qualche tempo fa ho avuto un lungo colloquio col mio carissimo amico Pino, che mi ha letto alcuni passaggi di una lettera inviata da De Gasperi alla moglie quando era in carcere e soffriva l’isolamento da parte del regime fascista: ad un certo punto Pino si è commosso e ha interrotto per qualche secondo la lettura.

Sapremo ritrovare qualcosa dell’eredità che ci hanno lasciato questi grandi personaggi o continueremo a girare a vuoto aspettando i miracoli di Trump e…Meloni?