Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza. Se c’era bisogno di un’ulteriore verifica per questa verità, ecco l’attentato terroristico a Gerusalemme. Sì, perché, quando di mezzo c’è anche la variabile impazzita del terrorismo, il discorso diventa ancor più tragicamente realistico.
La guerra perpetua non può essere però il destino della terra cara a tre religioni che predicano pace. Israele di fatto ha vinto militarmente, un 7 ottobre non potrà ripetersi, mentre non c’è modo di evitare al cento per cento singoli episodi. Continuare a uccidere e lasciare morire donne e bambini a Gaza costituisce un crimine in sé e finirà con il costringere Israele a chiudersi in un’armatura certo efficace quale protezione, avendo tuttavia diluito quel capitale di amicizia e sostegno che ne ha fatto un piccolo-grande Paese apprezzato per la sua storia, la sua cultura e la sua democrazia. Oggi più che mai gli estremisti arabi sono avvelenatori del loro stesso popolo: vanno isolati e disarmati. Lo Stato ebraico – che soffre, è lacerato al suo interno e non sa fermare un conflitto devastante – viene chiamato nelle ore più drammatiche a scelte, come l’accettazione di una tregua, che ridiano una speranza alla convivenza e un’occasione per costruire di nuovo insieme ai suoi alleati un futuro più sereno. Un futuro che veda placarsi il tornado di odio e violenza che ora lo sovrasta. (da “Avvenire” – Andrea Lavazza)
Il terrorismo non si combatte con la più larga e spietata delle vendette, non solo per motivi etici, ma anche per due ragioni tattiche: nel terrorismo assieme ai fanatici trovano voce i disperati che con la guerra tendono ad aumentare; i terroristi poi non hanno paura di morire e quindi sono brutalmente ed inevitabilmente vincenti.
Dove vuol parare il governo israeliano? Pensa di sconfiggere Hamas allargando sempre più il conflitto? Si illude di risolvere il problema annientando tutto il popolo palestinese? Ritiene opportuno trasformare Israele in un bunker inattaccabile e inviolabile?
Il bunker, per dorato che sia, potrà resistere ai futuri attacchi dei rimasugli terroristico-palestinesi, ma isolerà (sta già avvenendo) il popolo israeliano da tutto il mondo andando contro la storia.
Il cosiddetto mondo democratico occidentale sta cadendo in questa trappola: non trova il bandolo della matassa e continua a pestare l’acqua nel mortaio degli appelli al vento. Gli Usa di Trump sembrano fare questo ragionamento: se questa guerra perpetua sta bene ad Israele, sta bene anche a noi, cerchiamo di trarne qualche vantaggio. Il discorso funzionerà finché la dimensione bellica non oltrepasserà i confini regionali per raggiungere un vero e proprio conflitto globale e finché il terrorismo non passerà dai bus israeliani agli aerei statunitensi.
I Paesi europei, che dovrebbero capire meglio i rischi, se non altro per motivi di vicinanza geografica, reagiscono a parole, ma finiscono col chinare il capo, cavalcando magari la mentalità di chi trova conferma dagli eventi terroristici per convincersi della impossibilità di puntare almeno ad una tregua.
Persino la Chiesa cattolica balbetta: dichiara apertamente che la guerra è il peggiore dei mali e poi si rassegna diplomaticamente (?) alle mosse della sterile realpolitik.
Nemmeno eventuali attacchi terroristici in grande stile potranno scalfire la scorza del fatalismo bellico: tutti si chiuderanno ancor di più nei loro gusci. Il terrorismo avrà sostanzialmente vinto dando l’illusione di essere isolato mentre isolati saremo tutti noi.
Cosa potrà rompere questo circolo vizioso della guerra? Il circolo virtuoso della pace costruito sulle coscienze. Papa Francesco lo aveva capito e puntava lì tutte le sue cartucce evangeliche. Purtroppo lui non c’è più e il ricordo del suo messaggio profetico lo stanno mettendo negli archivi vaticani.
