Le torte in faccia agli uomini di sicure speranze

Dopo giorni di anticipazioni e tre ore di colloqui, Donald Trump e Vladimir Putin non si sono intesi su alcun passo avanti concreto verso la fine della guerra in Ucraina.

Alla fine del vertice in Alaska — il primo faccia a faccia fra i due dal 2018 — i presidenti americano e russo hanno menzionato vagamente «molti punti concordati», ma non hanno annunciato nessun accordo, tanto meno il cessate il fuoco che il capo della Casa Bianca insegue da mesi e Putin rifiuta.

Parlando a fianco dell’omologo russo dalla base Usa Elmendorf-Richardson di Anchorage, Trump ha assicurato che progressi sono stati fatti: «Molti elementi sono stati concordati, e ne restano solo pochissimi», ha detto, ma non ha spiegato quali. Poi ha concluso: «Non c’è accordo finché non c’è un accordo».

Poco prima, Putin aveva riaffermato le sue richieste per mettere fine alle ostilità. «Siamo convinti che per rendere un accordo duraturo, dobbiamo eliminare tutte le cause principali del conflitto», ha detto: una frase che dall’inizio dell’invasione usa per riassumere le sue pretese sull’Ucraina. Vale a dire, che Kiev ceda a Mosca il territorio che la Russia controlla, anche in parte, si disarmi, rinunci all’adesione alla Nato e alla Ue e cambi il suo governo. «Ci aspettiamo che Kiev e le capitali europee non ostacolino i lavori» ha concluso il capo del Cremlino.

Il leader russo ha poi concesso a Trump un punto che ripete dal 2022: «Il presidente ha affermato che se fosse stato presidente allora non ci sarebbe stata la guerra, e sono abbastanza sicuro che sarebbe effettivamente così — ha detto Putin —. Posso confermarlo».

Nessuno dei due ha risposto alle domande delle centinaia di giornalisti presenti, ma si sono salutati calorosamente, promettendosi di rivedersi molto presto. «A Mosca», ha detto Putin in inglese. «Questo è interessante — ha risposto Trump —. Mi farò criticare, ma può succedere».

Più tardi, in un’intervista a Fox News, Trump è sembrato volersi defilare dal suo ruolo di mediatore, dicendo che sta a Volodymyr Zelensky e Putin organizzare un incontro per raggiungere un cessate il fuoco. «Ora spetta davvero al presidente Zelenskiy farlo», ha detto. (da “Avvenire” – Elena Molinari)

C’è un detto scurrile ma significativo in dialetto parmigiano che dice: “Co’ vôt pretendor da un cul ‘na romanza?”. Lo potremmo aggiornare in “Co’ vôt pretendor da du cul un duètt?”. Questa in estrema sintesi la conclusione del tanto sbandierato incontro al vertice fra Trump e Putin.

Si fa grande fatica a raggiungere seri accordi quando si parte da rette intenzioni e corrette premesse, figuriamoci quando tutto è lasciato a trattative basate sulla ricerca di equilibri di puro potere.

Probabilmente i due avranno raggiunto inconfessabili accordi sottobanco, nel senso che ognuno possa continuare a fare “i cazzi suoi”, vale a dire l’esatto contrario di pace, ma persino questa sorta di brutale spartizione di torte lascia il tempo che trova, in quanto prescinde dalla presenza di un pasticciere molto forte sul mercato, vale a dire la Cina.

Sento in giro speranzose espressioni sul clima di dialogo, ma quale dialogo? Quello fra Trump e Putin non è e non può essere un dialogo, ma soltanto una strizzata d’occhi fra patentati e delinquenziali bugiardi. Il resto è commedia mediatica, che copre i più sporchi giochi di potere.

Come ha recentemente affermato Massimo D’Alema la politica anche a livello internazionale prescinde ormai completamente dai valori ma anche dai pur legittimi interessi di parte: come appare quotidianamente dalle dichiarazioni contraddittorie dei capi di governo, la navigazione si svolge senza bussola, i potenti (?) non sanno quel che vogliono e brancolano nel buio totale in cui la guerra non può che farla da padrona.

E allora? Nonostante tutto bisogna sperare. “Spes contra spem” è una locuzione latina, nonché un motto di san Paolo, che significa letteralmente “speranza contro speranza”. In pratica, si riferisce alla capacità di sperare anche quando non ci sono ragioni apparenti per farlo, o quando le circostanze sembrano indicare il contrario. È un’espressione che indica una speranza che persiste nonostante le difficoltà, spesso legata alla fede e alla determinazione.

Nonostante il fragore delle armi che risuona a Gaza come a Kyiv, e non solo, oggi «la speranza c’è: dobbiamo cercarla anche attraversando l’oscurità, le difficoltà, i problemi». È quanto ha assicurato il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana. «La speranza non è qualcosa che si afferma immediatamente, richiede di attraversare i problemi che possono e debbono essere risolti», ha spiegato il porporato ai giovani partecipanti.

Quando a livello internazionale, a proposito della guerra in Ucraina, è stato annunciato un incontro in Alaska tra il presidente statunitense Donald Trump e quello russo Vladimir Putin, Zuppi ha auspicato che «il dialogo prevalga e un incontro così importante possa dare i frutti desiderati». «La comunità internazionale si è molto preoccupata di garantire la difesa dell’aggredito»: al contempo, ha riflettuto, è necessario «favorire un dialogo» che «onestamente c’è stato molto poco». Guardando ai conflitti di oggi, ha ricordato, Papa Leone XIV «chiede di fare quanto prima un vero cessate-il-fuoco»: «Non lasciamolo da solo, diamo forza all’appello» del Pontefice, è stata la sollecitazione del porporato. Di qui un invito a fare proprio l’appello di Papa Prevost – che, ha evidenziato, «si è coinvolto» in prima persona per fare «della Sede Apostolica un luogo di vera ricerca della pace» – a «combattere ogni inimicizia con l’amicizia. (da Vatican News)

Papa Francesco parlava spesso della speranza, sottolineando che è una virtù fondamentale per i cristiani e per il mondo intero, specialmente in tempi difficili. Egli la descriveva come una forza che non delude, basata sulla fede nella risurrezione di Cristo e capace di illuminare anche i cuori più oscuri. La speranza, per Papa Francesco, non era un’illusione passiva, ma una virtù combattiva e paziente che ci spinge ad agire, a seminare il bene e a cercare il cambiamento.

Il cardinal Carlo Maria Martini, in un discorso tenuto a Vallombrosa nel 1984, sosteneva in termini provocatoriamente critici come la prassi cristiana non riesca a trovare il giusto rapporto tra la speranza escatologico-messianica e le speranze, le aspettative degli individui e delle comunità, in relazione alla giustizia, ai diritti umani e così via.

In conclusione dobbiamo cimentarci nella sfida della speranza a prescindere dalle pantomime dei potenti della terra, come appunto il recente incontro svoltosi in Alaska tra due galli, che ci vogliono far passare tutti da galline.