Sarà perché non sopporto le radunate oceaniche, sarà perché ho un concetto troppo aristocratico della vita, sarà perché non accetto la spettacolarizzazione di tutto per coprire la disperazione del nulla, sarà perché la conversione religiosa la concepisco come un cammino interiore e non come una kermesse esteriore, sarà perché la mediatizzazione degli eventi porta con sé, sempre e comunque, il rischio di svuotarli di contenuto, sarà perché il cristianesimo non è fatto per le masse ma per il “piccolo gregge”, sarà perché il giovanilismo è una trappola per i giovani e un’illusione per gli anziani, sarà perché non esiste la Chiesa dei giovani ma la Chiesa dei poveri, sarà perché temo che il giubileo sia soltanto una mano di vernice sui muri screpolati delle inesistenti comunità cristiane, sarà perché la sfilata delle categorie sociali e generazionali è roba da regime, sarà perché ho poca fiducia nei giovani in quanto li vedo appiattiti sui falsi valori più che impegnati sui veri valori, sarà perché sono vecchio e guardo poeticamente al futuro con troppa nostalgia del passato, sarà perché concepisco la fede come attenzione alle piccole (grandi) cose e non come tensione verso i grandi (piccoli) successi, sarà perché un milione di giovani mi dà più preoccupazione che soddisfazione, sarà perché l’aggiornamento della Chiesa non dovrebbe consistere nel somigliare di più al mondo ma nel cercare di cambiarlo, sarà perché nei giovani faccio fatica a cogliere la sacrosanta contestazione verso le ingiustizie e le contraddizioni della società, sarà perché non vedo alcun collegamento fra la politica e l’impegno giovanile, sarà perché intravedo nella Chiesa il tentativo di riciclarsi coi giovani anziché di rinnovarsi coi poveri, sarà per tutti questi motivi che resto piuttosto perplesso e scettico verso il tanto osannato recente giubileo dei giovani, celebrato a Roma in una esagerata sarabanda di spettacolari iniziative.
Ripiego sugli insegnamenti paterni. Mio padre, con la sua abituale verve ironica, così sintetizzava lo scontro fra generazioni: «Quand j’éra giovvon a säve i véc’, adésa ch’a són véc’ a sa i giovvon…». Intendeva sdrammatizzare gli insopportabili schemi sociologici, che ci assillano con le loro sistematiche elaborazioni dell’ovvio. D’altra parte è come nella vita di coppia. Quando non c’è accordo, qualsiasi parola o azione è sbagliata. Meglio tacere e non fare nulla. È quanto, in fin dei conti, molti “falsi criticoni” desiderano ardentemente. Concludeva rassegnato: Con chil bàli chi, mi an so mai…».
Aveva un suo modo di rapportarsi coi giovani, non era assolutamente implacabile nelle critiche verso di loro, ma non gliele risparmiava: intendeva ricondurli al senso di responsabilità, senza inutili accanimenti più o meno terapeutici. Tipico al riguardo l’atteggiamento nei confronti delle loro, anche piccole, trasgressioni, davanti alle quali reagiva non tanto con fastidio, ma con pragmatico spirito educativo. Esordiva dicendo: «Dónca, ragas, a són stè gióvvon anca mi…» e poi articolava i suoi eventuali e razionali rimproveri.
La politica vezzeggia i giovani fintanto che non si vede fortemente contestata: la contestazione scarseggia, ma meno contestazione c’è, più reazione repressiva sorge.
La religione vuole inglobare i giovani per irrobustire le ginocchia vacillanti delle Chiese: se e quando dovessero fare sul serio, scatterebbero le trappole del tradizionalismo e del clericalismo.
D’altra parte, per dirla con una frase fatta, il futuro è nelle mani dei giovani. Sarà poi vero? Preferisco metterlo nelle mani di Dio e in tutti coloro, giovani o vecchi, che si sforzano di impostare un rapporto sano con il futuro, che è fatto di anima, e quindi cercano di mettere un po’ di anima nel futuro! (padre Ermes Ronchi).