Vieni, c’è una casa nel bosco

I bambini della casa nel bosco di Palmoli non torneranno a casa per Natale. Ma non saranno gli unici minori a trascorrere la festa più bella dell’anno lontano da casa. Nella loro stessa situazione ci sono nel nostro Paese altri ventimila bambini e ragazzi di cui però nessuno parla. A cui non vengono dedicati servizi e talk show, che non suscitano il minimo interesse da parte della politica. Una contraddizione che la dice lunga sulla sensibilità a circuito variabile verso il dramma dei minori fuori famiglia e dei loro genitori. Tanto clamore per un caso, certamente importante e certamente singolare. Silenzio assoluto per gli altri ventimila, altrettanto importanti e altrettanto singolari. Ora, come sappiamo, la Corte d’appello dell’Aquila ha respinto il ricorso presentato dagli avvocati della famiglia anglo-australiana. La palla torna quindi al Tribunale per i minorenni che dovrà valutare i progressi, soprattutto per quanto riguarda la socializzazione, compiuti dai tre bambini ospiti dal 20 novembre scorso di una casa famiglia a Vasto. E da qui nuove domande, nuove valutazioni, nuove analisi del caso da parte di opinionisti e tuttologi che affollano i salotti televisivi dove, quasi quotidianamente, si passa al setaccio la vicenda, si analizzano le relazioni dei servizi sociali, tra cui l’ultima in cui si spiega che i bambini non sanno leggere, che si stupiscono di fronte alla doccia, che mostrano di non aver mai usato il sapone, che fanno fatica a spiegarsi con gli altri bambini perché quasi non parlano in italiano. Questioni non decisive, d’accordo, che forse avrebbero potuto essere risolte spiegando alla famiglia la necessità di mostrarsi più collaborativa. Proprio come sta avvenendo in questi giorni, con i genitori che hanno annunciato la loro disponibilità a trasferirsi in una villetta dotata di tutti i servizi – acqua, luce, gas, servizi igienici – mancanti nel casolare abitato fino a poche settimane fa. (“Avvenire” – Luciano Moia)

Mi vengono spontanee alcune domande/ riflessioni, peraltro collegate fra di loro, che la dicono lunga sulla nostra penosa società.

Non si poteva affrontare per tempo questa situazione famigliare al giusto livello psico-sociale senza bisogno di creare un corto circuito legale, mediatico e politico sbattendo in prima pagina i mostri o i santi a seconda dei punti di vista?

I servizi sociali del comune competente non potevano intervenire a babbo vivo in modo più umano e meno burocratico?

Non si poteva dialogare con questi genitori con pazienza sociale e umiltà giuridica?

Perché si aspetta sempre che i problemi deflagrino per poi affrontarli a gamba tesa, facendo del male a tutti più che del bene ai bambini?

Il tribunale competente non poteva aspettare un po’ prima di adottare drastiche misure: l’istruttoria attuale non poteva essere fatta prima di giungere alla rottura. Ci si doveva almeno tentare! Adesso è tardi e comunque chi ha rotto non pagherà e i cocci saranno di quei bambini.

Non è ora di smetterla con la Tv spazzatura che affronta i problemi umani con il garbo di un elefante nel negozio di cristalleria?

Questi casi così pietisticamente analizzati e così strumentalmente branditi altro non rappresentano che il goffo tentativo di tacitare le coscienze pubbliche e private riguardo alla vastità e profondità dei mali della società.

La casa nel bosco è diventata la casamatta in cui scaricare tutte le emarginazioni infantili davanti alle quali restiamo indifferenti, salvo svegliarci di soprassalto quando scoppia qualche clamorosa e lacerante contraddizione.

È questo ormai lo stile partecipativo di una società egoisticamente chiusa in se stessa, che galleggia sui propri mali, scaricando su Tizio (magistratura), Caio (politica) e Sempronio (psicologia e sociologia) la propria carenza etica e la propria indifferenza umana su cui stendere l’impietoso ed ispido velo mediatico.