«Venite in Italia, c’è lavoro in una fabbrica di cipolle, 9 euro l’ora, 1.200 euro al mese, affitto a 100 euro». Così avevano promesso ad alcune donne bulgare. All’arrivo in Calabria, però, la realtà si è rivelata un incubo: non c’era alcuna fabbrica, nessuna paga oraria, nessun alloggio decente. Dormivano in una struttura turistica abbandonata, senza elettricità, tra pavimenti sporchi e coperte logore. Ogni giorno venivano caricate su furgoni e portate nei campi. In due mesi di lavoro estenuante avevano ricevuto appena 90 euro. Nessun contratto. Solo minacce. Quando una di loro ha chiesto di essere pagata il mediatore che l’aveva portata in Calabria le ha suggerito di “concedersi” sessualmente al caporale per ricevere il salario pattuito. Si è rifiutata. Ed è fuggita. Alcuni conoscenti hanno consigliato di contattare l’anti-tratta che l’ha allontanata immediatamente dalla zona. L’intervento tempestivo ha permesso di rassicurarla e convincerla a denunciare.
Una storia che riassume le condizioni delle donne che lavorano in agricoltura, italiane e immigrate, 300mila quelle con contratto, il doppio quelle “in nero”, tutte comunque sfruttate, pagate quasi il 20% in meno dei braccianti maschi e vittime di ricatti sessuali. Una condizione di “plurisfruttamento” denunciata in “(Dis)uguali”, il nuovo Quaderno dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil. (“Avvenire” – Antonio Maria Mira)
Mettiamo questa vergognosa realtà a confronto con l’ipocrisia programmatica di chi teorizza l’accoglienza solo agli immigrati che hanno voglia di lavorare e l’espulsione per chi non lavora e vive di espedienti.
Ma dove vivono questi benpensanti del cavolo? L’immigrazione clandestina va benissimo per chi intende sfruttare questi disperati, trattandoli da cani a livello retributivo, senza protezioni sociali, senza diritti, senza servizi etc. etc.
Di quale nazionalità sono questi sfruttatori? Sono i connazionali dei benpensanti di cui sopra, che si scandalizzano quando arrivano i barconi e non fanno una piega quando muore sul lavoro un immigrato magari scaricato in un fosso come una bestia.
La condizione femminile aggiunge un ulteriore pizzico di orrore alla vita delle nostre campagne. Cosa pensano di questo fenomeno che vive e prospera a latere dell’immigrazione il cialtronesco Matteo Salvini, il fascistone riciclato Roberto Vannacci, il coccodrillone Luca Zaia, il pilatesco Antonio Tajani e soprattutto la perpetua comiziante Giorgia Meloni.
Per la verità non brilla nessuno, politicamente parlando, per sensibilità verso il problema dello sfruttamento dell’immigrazione: in buona sostanza da una parte si pontifica sulla rigorosa programmazione del fenomeno, dall’altra si tollera la violenza verso gli immigrati; da una parte si criminalizzano indistintamente tutti i clandestini, dall’altra se ne fa un autentico mercato a monte e a valle; da una parte si auspica l’inserimento lavorativo degli immigrati, dall’altra parte lo si attua senza regole e senza alcuna rete protettiva.
Dulcis in fundo si ammette che la nostra società ha bisogno degli immigrati per rispondere ad esigenze lavorative alquanto scoperte, per colmare le lacune di una drammatica situazione demografica e compensare i buchi del sistema pensionistico. Contemporaneamente gli immigrati quando non vengono sfruttati, danno fastidio perché si immischiano nella nostra cultura e nei nostri schemi socio-economici.
Mio zio Mario, che viveva e lavorava da molto tempo a Genova, quando tornava a Parma e incontrava gli amici di un tempo si ricreava immediatamente il rapporto cameratesco condito dai ricordi. Al termine di questi fitti dialoghi sparava quasi sempre una simpatica battuta. Al momento dei saluti rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vól gnir a catär…sta a ca tòvva».
Noi facciamo così, né più né meno, con gli immigrati aggiungendoci un po’ tanto razzismo e parecchia ipocrisia.
