Le vittorie di Pirro e le sconfitte di La Pira

Otto paci e una guerra. Trump “il pacificatore” – non si stanca di ripeterlo – ha messo fine ai conflitti nei punti più cruenti del globo, dal Congo a Gaza. Tanto da meritare il Nobel – precisa con una buona dose di stizza –, scippatogli alla fine «per ragioni politiche». Nel suo Continente, però, lo stesso presidente ha deciso di avviare un conflitto di intensità inedita. Una sorta di “nuova guerra dell’oppio” – o meglio, del Fentanyl –: nel mirino formalmente ci sono i narcos, «il Daesh dell’Occidente», «terroristi ansiosi di avvelenare i cittadini statunitensi». In gioco, tuttavia, c’è molto di più. La riconquista dell’egemonia perduta a Sud del Rio Bravo – il vecchio “Giardino di casa” – nei decenni post-Guerra fredda quando la Casa Bianca s’è lasciata distrarre da altri scenari, dal Medio Oriente all’Ucraina. Nonché, soprattutto, tanti buoni affari. Incluso il “business dei business” secondo The Donald: lo sfruttamento dei minerali critici per la transizione energetica, di cui l’America Latina ospita ingenti riserve. Il “triangolo del litio” è solo una: il Brasile, ad esempio, ha la seconda maggior concentrazione al mondo di terre rare. La “dottrina Monroe 2.0” del tycoon – riadattamento dell’adagio pronunciato dall’allora presidente James Monroe, “L’America agli americani”, presupposto di oltre un secolo di ingerenza Usa nella parte centro-meridionale del Continente – è un mix di nostalgie imperiali, ossessione anticinese – il nemico geostrategico per antonomasia – e tecniche di vendita da immobiliarista navigato. A cucirle insieme un tratto caratteriale che il presidente ha trasformato in principio guida dell’azione politica: l’imprevedibilità. “Madman theory”, la teoria del matto, la chiamano i politologi: un leader riesce a convincere gli avversari di essere capace di qualunque cosa, esercitando nei loro confronti una forma importante di coercizione. Non è la prima volta che un capo della Casa Bianca la adotta. Di nuovo – come per la guerra alla droga, ufficialmente dichiarata nel 1971 – il riferimento è Richard Nixon. Nessuno, però, l’aveva portata all’estremo trumpiano. (“Avvenire” – Lucia Capuzzi)

Come noto, Federico Rampini fotografò il prevedibile confronto elettorale americano fra Biden e Trump come lo scontro fra un demente e un delinquente. Il demente (tale demenza forse era l’unica estrema arma da giocare contro la furbizia del delinquente) fu sostituito all’ultimo minuto da Kamala Harris, una parvenue democratica che di democratico aveva ben poco, e il delinquente vinse a piene mani. Adesso impariamo che è anche un “matto”, che la sa molto lunga e che ha come villaggio il mondo.

Mia madre era talmente contenuta nei giudizi sulle persone da giustificare i delinquenti, commentando laconicamente: “jén dil tésti mati”. Qui mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ätor di l’à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”.

Donald Trump non è matto, perché le scatole di lucido da scarpe le fa mangiare a noi e noi le stiamo mangiando senza fare una piega, anzi le mangiamo con appetito e soddisfazione. Pazienza gli americani, ma anche noi!

Non so fino a che punto reggerà la sua imprevedibilità: forse è meglio lasciarlo bollire, costi quel che costi, nel suo brodo. Penso sia la tattica putiniana. Forse tutto il mal non vien per nuocere, al punto da costringerci a ripartire dai principi e dai valori, ciò che non riescono a fare il partito democratico statunitense e tutti i partiti di sinistra sparsi nel mondo. La politica deve cedere il passo all’etica. Ecco perché papa Francesco era l’unico personaggio di riferimento per chi sognava un mondo diverso.

Arriveremo in tempo? In questi giorni il mio carissimo amico Pino, che, suo malgrado e a suo rischio e pericolo, sta diventando un mio prezioso consigliere diplomaticamente coraggioso, mi ha comunicato di avere conservato un articolo dello scrittore israeliano Amos Oz del 2011, in cui si dice fra l’altro che la speranza non è virtù per tempi tranquilli, ma è l’unica virtù di cui abbiamo necessità nelle epoche di incertezza e instabilità come quella che stiamo vivendo. È morto nel 2018. Cosa direbbe se fosse ancora vivo…Abbiamo bisogno di personaggi di questo calibro, che trasmettano speranza…

Giocando sulle parole si potrebbe dire che è Maduro il tempo di…sperare. Questa è la follia da contrapporre a quella trumpiana: Giorgio La Pira docet. Probabilmente, se fosse ancora in vita, andrebbe a parlare col presidente americano, facendosi accompagnare dalle preghiere di un esercito di suore di clausura. Gli spiattellerebbe in faccia questa sua vena diplomatica surreale a cui probabilmente Trump risponderebbe col suo “opinionistico” esercito di cattolici americani del piffero e magari con la subdola promessa di inviare le forze armate statunitensi in Nigeria se il Paese non arginerà le aggressioni ai cristiani da parte degli islamisti.

La Pira rifiuterebbe sdegnosamente un tale folle contentino e continuerebbe la sua gara apparentemente vocata alla sconfitta. Così come esistono le vittorie di Pirro ci sono però anche le sconfitte di La Pira.