Il dolore sociale nelle cantine dell’odio

A quasi cinquant’anni dall’abolizione delle classi differenziali (prevista dalla legge 517 del 1977), circa un insegnante su tre (il 27% per l’esattezza) è favorevole alla riapertura delle scuole e delle classi speciali. E questa percentuale è in aumento di 10 punti rispetto soltanto a due anni fa.

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Attualmente, ricorda Erickson, gli studenti con disabilità certificata nella scuola italiana sono circa 325mila, pari al 4% del totale, ma soltanto poco più di un insegnante di sostegno (il 36%) è di ruolo e appena il 41% delle scuole ha a disposizione ausili tecnologici che permettono la partecipazione attiva degli alunni con disabilità. Un quadro per nulla confortante, a cui si aggiunge, ora, una percentuale consistente di insegnanti che, almeno a parole, dimostra di aver perso la speranza circa un’effettiva inclusione scolastica, preferendo il Modello a tre vie: scuole solo per alunni con disabilità (casi di disabilità grave), classi per alunni con disabilità nelle scuole normali (casi di disabilità media), inclusione piena in classe (casi di disabilità lieve).

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Nella scuola italiana, insomma, cresce la disponibilità a considerare soluzioni differenziate. «In termini di clima culturale generale – si legge nella ricerca – ciò indica un minore consenso all’inclusione piena e una maggiore accettazione di modelli che possono assumere caratteristiche separative. In assenza di test inferenziali e di intervalli di confidenza, la lettura resta descrittiva, ma il segnale è rilevante». (“Avvenire” – Paolo Ferrario)

 

 

Ci sono urla nel silenzio, che nessuno ascolta più. C’è un diffuso «dolore sociale» che stiamo sottovalutando, nella stagione dell’odio. Luigi Manconi si misura da una vita con l’idea di una società disumanizzata e, se possibile, adesso vuole dare ancora più voce a chi non ha voce. Con parole nette, calibrate. Nell’ufficio di Roma dell’associazione “A buon diritto”, dove ci riceve, non ha paura a chiamare le cose con il loro nome. «Mi chiede del carcere? Penso che si debba parlare di fallimento, tutto il sistema penitenziario italiano dovrebbe portare i libri in tribunale» dice il sociologo, che tratteggia il volto di «comunità friabili e allentate», di una società che ha smarrito se stessa. Occorre mettersi in guardia, dice, dalla «regressione anche linguistica in corso nel Paese», difendendo e rilanciando le poche, buone pratiche che ancora ci sono.

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Lo sviluppo di un linguaggio discriminatorio e criminalizzante è fattore di tensione sociale, di incattivimento delle relazioni tra i gruppi. Il fatto stesso di porre come priorità la difesa del proprio territorio e della propria identità diventa un elemento di ostilità verso chi sta fuori dal proprio perimetro. (“Avvenire” – Diego Motta)

 

L’aria che tira è purtroppo questa: la società si sta ripiegando su se stessa a costo di discriminare e isolare i diversi. Il discorso vale per i carcerati, per gli immigrati, per i malati di mente e per i disabili.

Al di là delle analisi più o meno sofisticate che vale per me è l’osservazione spicciola alla base della (in)cultura popolare: si sente sempre più parlare di carceri-spazzatura (se non di pena di morte), di respingimento a priori degli immigrati, di riapertura dei manicomi, adesso anche di ripristino delle classi differenziate per i disabili.

Attenzione perché, giorno dopo giorno, ci stiamo mettendo sotto i piedi la Costituzione, stiamo imboccando pericolose strade di regresso, stiamo costruendo una società sazia e disperata.

Mi chiedo se venga prima l’uovo dell’egoismo sociale o la gallina della reazione politica. L’egoismo sociale è un atteggiamento individuale o collettivo di preoccupazione esclusiva per il proprio interesse e benessere, che si traduce politicamente nell’orientare le politiche verso la difesa e l’ampliamento del potere e dei beni dei singoli o dei gruppi al potere, spesso a discapito degli interessi collettivi o dei gruppi più deboli. In politica, questo può manifestarsi attraverso politiche di esclusione, individualismo estremo e una competizione per le risorse, anziché la cooperazione.

Ho vissuta la mia esperienza professionale all’interno del movimento della cooperazione: una sfida paradossale a difendere i propri interessi economici e sociali in collaborazione con gli altri in un clima che potremmo definire di competizione solidale. Anche questo mondo si sta arrendendo ai meccanismi di mercato, subendoli passivamente e non combattendoli solidalmente.

La matassa sociale non è ingarbugliata per la presenza di soggetti fuori dagli schemi, ma perché gli schemi tendono a restringersi e ad espellere drammaticamente tali soggetti.

Ricordo un episodio emblematico di parecchi anni fa. Un mio carissimo amico stava vivendo una grossa difficoltà famigliare dovuta ad un grave handicap di cui soffriva suo figlio. All’impegno genitoriale aggiunse la speranza di poterlo inserire nel normale percorso scolastico e di questa speranza parlò con una persona che istituzionalmente avrebbe dovuto incoraggiare tale percorso di recupero. Invece purtroppo si sentì gelare il sangue davanti alle sue a dir poco sbrigative e sarcastiche parole, che tento di riportare all’attualità: “Si capisce, adesso i bambini handicappati vanno a scuola assieme ai bambini normali, i matti girano per le strade, i criminali godono di permessi premio, gli immigrati rubano casa e lavoro agli italiani…”.

Alzi la mano chi non sente in giro ragionamenti del genere, che trovano risposte nel clima sociale che si va impostando e nei discorsi politici di maggiore successo. Stiamo tornando indietro, pensando di difendere la libertà e la democrazia, riducendola a mera difesa dell’ordine pubblico e della identità nazionale a costo di provocare emarginazione, conflittualità e disordine sociale.