Eravamo nei primi mesi del 1969, avevo in tasca un fresco e brillante diploma di ragioniere, avevo appena incominciato a lavorare al centro elaborazione dati della Barilla, ero stato assunto in prova, c’era lo sciopero generale di solidarietà per i dipendenti della Salamini, azienda che stava per fallire. Ricordo con emozione il caso di coscienza che mi si poneva: aderire allo sciopero comportava qualche rischio non essendo ancora dipendente a titolo definitivo, gli stessi sindacalisti interni mi avevano concesso di comportarmi liberamente, i colleghi anziani facevano strani discorsi sull’opportunità di uno sciopero a loro avviso inutile, gli impiegati più scettici temevano di danneggiare ingiustamente la Barilla per colpa della Salamini. Credevo nel sindacato, nella solidarietà tra lavoratori, nello sciopero come diritto e come strumento di lotta, mi importava dei lavoratori della Salamini i quali stavano rischiando il loro posto e non mi preoccupava il fatto di creare problemi al mio datore di lavoro. Alla fine andai a lavorare col “magone” dribblando il cordone sindacale posto all’ingresso della fabbrica. In un certo senso aveva vinto l’egoismo anche se gli stessi sindacalisti non avevano preteso da me un atto di coraggio. Mi è tornato alla mente questo piccolo episodio della mia vita in concomitanza con la vicenda della Flotilla, missione di solidarietà per Gaza.
Dice Giorgia Meloni sul nuovo attacco alla Flotilla, la missione diretta a Gaza per portare aiuti alla popolazione palestinese, da New York dove partecipa all’assemblea generale dell’Onu. “Tutto questo è gratuito, pericoloso, irresponsabile. Non c’è bisogno di rischiare la propria incolumità di infilarsi in un teatro di guerra per consegnare aiuti a Gaza che il governo italiano avrebbe potuto consegnare in poche ore”, commenta la premier ribadendo quanto già detto nei giorni scorsi. E aggiunge durante il punto stampa: “Io non sono stupida: quello che accade in Italia non ha come obiettivo alleviare la sofferenza della popolazione di Gaza, ma attaccare il governo italiano. Trovo oggettivamente irresponsabile usare la sofferenza a Gaza per attaccare l’esecutivo”. (da “La Repubblica”)
Ricordo bene due episodi riguardanti la vita di mio zio Ennio sacerdote, raccontati spesso da mia madre, sua devota sorella.
Uno riguardava l’accoglienza data da zio Ennio ad un ebreo in pieno clima antisemita, in chiaro dissenso con le leggi razziali, correndo ovvi ed enormi rischi, senza badare agli appelli alla prudenza giunti anche dall’interno della sua famiglia. Non ebbe esitazioni, vinse anche le quasi ovvie resistenze di sua madre (nonna Ermina): non ammise repliche e nascose quella persona in casa, ci voleva del fegato.
L’altro episodio ineriva l’attività resistenziale svolta a favore dei partigiani: si prestava a fare da intermediario per lo scambio tra prigionieri: partigiani da una parte, fascisti e tedeschi dall’altra. Corse non pochi rischi, gli arrivarono inviti autorevoli alla prudenza da parte degli ambienti curiali, mise a repentaglio la vita più di una volta tanto da essere consigliato dal vescovo ad usare la massima cautela, consiglio ascoltato ma non accolto.
Non si fermò ed una volta, per non compromettere nessuno, fu costretto ad ingoiare alcuni bigliettini contenenti pericolose informazioni. Forse qualcuno aveva soffiato, non si seppe mai. I partigiani, nei giorni dopo la liberazione, lo portarono in trionfo.
Ci sono momenti della vita personale e sociale in cui ci si deve schierare fino in fondo anche a rischio della propria vita. Mia sorella, di fronte agli inviti alla prudenza pur provenienti da ragionamenti dettati dal buon senso, era solita esclamare: «Se i patrioti del Risorgimento avessero usato prudenza, avremmo ancora gli Austriaci in casa…».
Ecco perché, pur apprezzando lo spirito libero con cui opera il nostro Presidente della Repubblica, pur ammirando il suo coraggio personale ed istituzionale di pensare con la propria testa andando contro la ragion di governo, ho qualche sofferto dubbio sull’opportunità del suo intervento mediatorio: un autentico capolavoro di diplomazia, che però rischia di spiazzare gli stessi protagonisti dell’emblematica e forte iniziativa umanitaria e politica.
Poco dopo mezzogiorno, Sergio Mattarella entra con tutta la sua forza nella vicenda della Sumud Flotilla in viaggio verso Gaza. Con poche parole prende nettamente le distanze dalla premier, che aveva definito la spedizione «irresponsabile» e finalizzata a «creare problemi al governo» e sottolinea «il valore dell’iniziativa che si è espresso con ampia risonanza e significato» e lancia un appello «alle donne e agli uomini» in mare da oltre 20 giorni. «Il valore della vita umana, gravemente calpestato a Gaza con disumane sofferenze per la popolazione, richiede di evitare di porre a rischio l’incolumità di ogni persona. Mi permetto di rivolgere con particolare intensità un appello perché raccolgano la disponibilità offerta dal Patriarcato Latino di Gerusalemme – anch’esso impegnato con fermezza e coraggio nella vicinanza alla popolazione di Gaza – di svolgere il compito di consegnare in sicurezza quel che la solidarietà ha destinato a bambini, donne, uomini di Gaza». (da “Il Manifesto)
Spesso mi sento ripetere da amici e conoscenti una battuta che mette in discussione le piccole-grandi manifestazioni di protesta e le piccole-grandi rischiose iniziative di solidarietà: “A cosa servono? Non cambia niente!”. E chi ha detto che non cambia niente?
La frase più nota di Madre Teresa di Calcutta riguardo all’azione e al suo impatto, spesso citata come “le gocce del mare” o “gocce nell’oceano”, è: “Quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma l’oceano senza quella goccia sarebbe più piccolo”. Questa frase esprime l’idea che anche le azioni più piccole e apparentemente insignificanti possono avere un impatto e sono essenziali per il tutto. A maggior ragione se queste azioni mettono a rischio la propria vita.