Non a caso, in Alaska Trump ha ricevuto, con un calore e un rispetto francamente eccessivo, l’autocrate Putin, responsabile di questa guerra. Sono due dei pochi leoni della giungla-mondo: possono ruggirsi contro, ma si riconoscono come tali e si rispettano, demarcando il territorio su cui regnare. L’altro leone, il presidente cinese Xi Jing-Ping, guarda sornione gli sviluppi, mostrando i denti quando Trump minaccia di imporre dazi spropositati contro la Cina. Questi ultimi sono stati imposti a tutti, anche a noi alleati europei, che li abbiamo subiti con un’umiliante passività; con Pechino, che può fare male agli Stati Uniti, ancora si tratta.
È un ritorno alla pura logica di potenza di fine Ottocento e inizio Novecento che è reso ancora più amaro dall’assenza totale di ogni ruolo giocato dalle Nazioni Unite. E anzi, non solo l’Onu è stata ignorata, ma quasi nessuno si è mosso per sottolineare questa assenza. Non è stata coinvolta prima e non sembra vi sia la volontà di coinvolgerla per gestire il bilaterale fra Putin e Zelensky, che potrebbe anche essere un trilaterale con la partecipazione diretta di Trump. Neppure gli europei sembrano aver notato quanto sia scivolosa questa strada, per quanto probabilmente inevitabile. I più “coraggiosi” – forse bisognerebbe scrivere i meno pavidi e i meno succubi – hanno espresso il desiderio che vi sia anche un quadrilaterale, con l’Europa seduta al tavolo con la stessa dignità degli altri partecipanti. Non come avvenuto a Washington, con i nostri leader interrogati uno a uno come scolaretti, fermi ad aspettare in una stanza di essere convocati. Ma nessuno sembra aver realizzato che certificare la morte cerebrale delle Nazioni Unite come strumento di risoluzione delle dispute significhi picconare decenni di sforzi, dal 1945 in poi, per rendere il sistema internazionale meno brutale nel suo darwinismo geopolitico. Quanto appare chiaro è anche che la Russia, l’aggressore, appare l’attore premiato da queste trattative, mentre è l’aggredito che deve giustificarsi per cercare di ottenere una pace non troppo umiliante. (da “Avvenire” – Riccardo Redaelli)
Purtroppo questa logica è ormai accolta, se non convintamente, rassegnatamente. Mi continuo a chiedere come si possa reagire a questo andazzo internazionale. A livello di vertici non vedo possibilità; a livello politico non vedo un pensiero alternativo che si possa fare strada; a livello delle opinioni pubbliche noto un dissenso che però non riesce a manifestarsi pubblicamente e non va oltre i mugugni popolari.
Non esiste più una cultura su cui costruire nuovi rapporti di collaborazione fra gli Stati. Ho da sempre una visione laica della politica, ma devo ammettere che l’unica via d’uscita a questa deriva la vedo in un forte richiamo all’idealità cristiana, tutta da riscoprire e da porre alla base del nostro vivere.
Nel marzo del 2022 in una puntata del programma televisivo “otto e mezzo” su La 7, è apparso un importante sacerdote russo ortodosso, padre Giovanni Guaita, coraggiosamente schierato contro la guerra di Putin (una posizione contro-corrente rispetto alle storiche compromissioni ortodosse col potere sovietico prima e russo oggi. “Brutta gente” sentenziava mia sorella…). Lilly Gruber al termine del suo intervento gli ha chiesto quali fossero le sue speranze. Lui ha risposto con la speranza “debole” che la situazione economica costringa Putin a più miti consigli a cui ha aggiunto, con ammirevole discrezione e convinzione, la speranza “forte” che Dio non ci abbandoni e ci aiuti ad uscire dal tunnel.
Anch’io mi sforzo di porre tanta fiducia in Dio. Ce lo ha insegnato il grande Giorgio La Pira, che, non dimentichiamolo mai, incontrava i leader dell’Unione Sovietica, ma si faceva accompagnare dalle impetrazioni delle monache di clausura. E lo confessava apertamente, correndo il rischio calcolato e desiderato di suscitare ironico stupore.