Moro, un pluralista che metteva alla punta gli integralisti

In questi giorni si è aperto l’annuale meeting di Rimini promosso da Comunione e Liberazione. Non ho mai avuto simpatia religiosa e, tanto meno, ammirazione politica per questo movimento.

David Maria Turoldo, un monaco di spirito profetico e di notevole coraggio, nel 1975 esprimeva un autorevole e dubbioso giudizio affermando: «Dirò che constatando come in Cl tutto è ferreamente previsto e organizzato, e come l’individuo sia seguito dalla nascita alla tomba dalla onnipresente e insonne Cl, e come il ciellino deve ritmare la sua giornata, le sue relazioni, le sue vacanze, ecc., ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte più che a un movimento di fede, a una specie di Ibm del cattolicesimo italiano».

Solo Aldo Moro riesce a distogliermi dai pregiudizi e dai giudizi sbrigativamente negativi e mi costringe a guardare questo movimento con occhio diverso seppur critico, riprendendo, tramite i contenuti di una lettera, i rapporti tra Aldo Moro e CL.

Spuntata chissà come, è venuta alla luce qualche giorno fa una lettera del novembre 1974 di don Tommaso Latronico – giovane sacerdote di origini lucane, trasferitosi a Roma per i suoi studi di seminarista – indirizzata ad Aldo Moro, che proprio in quei giorni era impegnato nella formazione del quarto governo a sua guida. La lettera era conservata nell’archivio storico della Camera.

Moro aveva conosciuto don Latronico già da seminarista al collegio Capranica, dove era ad accoglierlo uno studente che sarebbe diventato il suo confessore, Antonello Mennini, più volte evocato nelle sue lettere dalla prigionia. Alcuni dei seminaristi con cui entrò in contatto avrebbero ottenuto in seguito l’ordinazione episcopale, fra questi il futuro cardinale Arrigo Miglio, Roberto Filippini, vescovo emerito di Pescia, e – nell’ambito di un gruppo di seminaristi espressione delle prime comunità di Cl – vi erano gli attuali vescovi emeriti di Taranto, Filippo Santoro e di Monreale, Michele Pennisi. Quest’ultimo ricorda nitidamente un Moro, al tempo ministro degli Esteri, che arrivava al Collegio su invito del rettore, monsignor Franco Gualdrini, «con il desiderio di confrontarsi con dei giovani che avevano fatto quella scelta trattenendosi in amabile conversazione, a volte fino alle 23». Moro aveva conosciuto Cl nella facoltà di Scienze politiche all’università di Roma, dove insegnava. Fu il loro responsabile, Saverio Allevato, a invitarlo al celebre primo raduno nazionale di Cl al Palalido di Milano, il 31 maggio 1973, dove Moro arrivò a sorpresa e prese posto nel parterre, fra i ragazzi.

In quella lettera don Latronico aveva specificato le date di gennaio, marzo e maggio 1975 fissate per gli incontri di scuola di comunità a Roma. Sarà un anno terribile per CI, quello, soprattutto a seguito di una notizia finita sui giornali, poi rivelatasi del tutto infondata, circa presunti finanziamenti della Cia al movimento. Le minacce e le aggressioni si moltiplicarono anche a Roma, anche sotto gli occhi di Moro, a Scienze Politiche. Questa premura verso Cl, discreta ma fattiva, emerge anche nel racconto di Francesco Cossiga, che rivelò come al suo insediamento da ministro dell’Interno, nel febbraio 1976, si sentì raccomandare da Moro presidente del Consiglio di proteggere i ragazzi di Cl che erano in pericolo all’università e per questo gli scrisse su un ritaglio di giornale, perché prendesse contatto, i numeri di don Giussani e Formigoni. Preoccupazioni non infondate: nel luglio del 1977 sarà gambizzato dalle Brigate rosse Mario Perlini, il papà di due giovani universitari romani di Cl che aiutava la comunità a tenere i conti, scambiato, come scritto nella rivendicazione, per un leader da colpire.

Moro non smise mai di offrire il suo ascolto, il suo incoraggiamento, i suoi consigli, ai ragazzi di Cl che incontrava in università, tanto che a Scienze politiche avvenne, su sua sollecitazione, un esperimento unico per quei tempi, che vide confluire i giovani democristiani nella stessa lista universitaria, con Cl. Nel ricordo di Nicodemo Oliverio (suo allievo in università, poi funzionario della Dc e parlamentare nelle file del Pd) c’è anche un contributo che Moro dava mensilmente (le decime) alla comunità dell’ateneo. Ma – un po’ come i discepoli di Emmaus, che riconobbero Gesù nello spezzare il pane – il tratto comune che dà la cifra di questa singolare amicizia fra Moro e Cl, a Roma, non fu certo una comune strategia politica o visione ideologica, ma la condivisione del sacramento dell’Eucaristia, partecipando numerose volte, Moro, nel corso di quegli anni, alla messa della comunità di Roma, la domenica, in qualche caso in compagnia di Vittorio Bachelet.

Per Moro, d’altronde, la fede – un po’ come nell’insegnamento di don Giussani – non è un alimento al quale attingere nei momenti più rilassati della vita, ma un faro che illumina la vita nel suo svolgersi, e si fa strada anzi con particolare evidenza proprio nel pieno delle prove che la vita impone. Se immaginiamo Moro, la sera prima del rapimento (che era per lui, ignaro del suo destino, la vigilia difficilissima del voto di fiducia, per il governo di solidarietà nazionale) trovato dal figlio Giovanni, rincasato molto tardi, immerso nella lettura del libro Il Dio crocifisso del teologo protestante Jürgen Moltmann, forse possiamo meglio intuire a che livello sia scattata la singolare predilezione di Moro per questo giovane sacerdote lucano.

Don Latronico è scomparso a soli 45 anni, nel 1993, a seguito di una malattia breve e fulminante e da qualche anno si è aperto per lui il processo di canonizzazione. La discrezione di quella sua lettera – al pari di tutto il rapporto che Moro mantenne con Cl, a Roma – dopo più di mezzo secolo, ci dice due cose, soprattutto. La prima – dal lato del destinatario – è la distanza della politica di Moro da quella che va per la maggiore oggi nell’era dei social, in cui ogni gesto, anche il più insignificante, va pubblicizzato, se possibile in diretta, in ragione del tornaconto che può portare in termini di consensi. La seconda, dal lato del mittente, ci racconta della sensibilità di don Latronico verso il bisogno che un credente operante in politica ha, nel suo impegno per il bene comune, di non esser lasciato solo, come un mero erogatore di servizi o “favori” alle prese con “la più alta forma di carità”, ma anche con una delle più formidabili tentazioni: l’esercizio del potere. Esigenza, questa, di recente riportata alla luce dalla Settimana sociale di Trieste, dedicata alla democrazia. (da “Avvenire” – Angelo Picariello)

Moro aveva una strategia politica ed una visione ideologica molto diversa da quelle di Comunione e Liberazione, ma sentiva l’obbligo di dialogare soprattutto coi giovani di cui si sforzava di comprendere ansie, proteste e finanche violenze. Davanti alla foto di un giovane ribelle con la pistola in pugno non si scandalizzò, né si lasciò andare a condanne inappellabili, ma si pose il problema di capire il perché di tanta e drammatica protesta.

Il dialogo! Un irrinunciabile imperativo moroteo. L’esatto contrario della vena integralista di CL a cui faceva riferimento David Maria Turoldo. Però evidentemente Moro era attratto e incuriosito, in senso religioso e politico, dall’impegno dei giovani aderenti a questo movimento e dalla, seppur contradditoria, vivacità culturale che li pervadeva.

Non voglio esagerare, ma quando leggo il Vangelo mi viene spontaneo concludere che Gesù, con il suo capovolgimento religioso, con il suo messaggio esistenziale, con la sua proposta ed il suo stile di vita, non poteva che finire in Croce. Analizzando la vita di Aldo Moro, la sua apertura mentale, il suo umile approccio ai problemi della società e il suo modo di concepire e fare politica, arrivo alla stessa conclusione: alla politica, intesa come mero esercizio del potere, non rimaneva che reagire e fargliela pagare, ammazzandolo come un cane.

In un certo senso bene ha fatto la moglie a rifiutare le esequie politiche a cui Paolo VI restituì il senso religioso.

«Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il “De profundis “, il grido, il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci! E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui. Signore, ascoltaci!»

In mezzo ad un mondo di nani due giganti si sono incontrati in vita e in morte!