Ad inaugurare la mistificazione del benessere è stato, alcuni decenni or sono, Silvio Berlusconi: le pizzerie e i ristoranti pieni zeppi erano per lui sintomo incontestabile di benessere e riscontro positivo per le sue politiche populiste.
Esistono due modi di approcciare la realtà sociale: farsi guidare dalle immagini virtuali e dalle statistiche trilussiane o andare impietosamente al sodo sulla base dei comportamenti effettivi della gente.
I dati occupazionali sono in crescita, ma purtroppo sono in crescita anche i dati sulla povertà. Allora bisogna dedurne che troppe persone lavorano con stipendi da fame e in condizioni precarie.
In questi giorni è scoppiata la polemica sulle vacanze italiane: il governo si accontenta di registrare arrivi in crescita e milioni di visitatori nelle nostre strutture ricettive; per altri ci sarebbe stata una perdita di presenze tra il 20 e il 30 per cento, esclusa la domenica, rispetto allo scorso anno, con complessivamente il 15% in meno di ombrelloni occupati.
Anche mio padre cadeva nella semplificazione sociale: quando osservava il mare di automobili in viaggio per le vacanze estive, diceva ironicamente: “L’é tùtta cólpa adl’ miseriä…”.
Da una parte molte famiglie italiane hanno salari troppo bassi per andare in vacanza, dall’altra parte il governo blocca l’adozione di un salario minimo.
A volte sento reazioni pseudo-sociologiche, simili a quella di mio padre, che operano paragoni impossibili fra periodi economico-sociali di tempi troppo lontani e diversi fra di loro: “’Na volta sì cl’andava mäl, miga adésa…”.
Forse il parametro delle vacanze, così come le presenze in pizzeria, non è dei più adatti per misurare il livello di benessere di una popolazione, mi sembrano molto più significative e mi colpiscono molto di più le interminabili file alle mense della Caritas, messe magari in contrapposizione con il ritorno di Barbara D’Urso sul piccolo schermo Rai, che sarebbe accompagnato da un cachet compreso tra i 50mila e i 70mila euro a puntata (ne girano anche di più esagerati).
Di fronte a queste paradossali ingiustizie sociali scattava uno sferzante dialogo con mia madre. “Ag vriss un po’ äd comunisom…” esordivo polemicamente e lei aggiungeva: “Sì, ma äd coll dùr dabón!”.
Mio padre invece commentava sarcasticamente: “Mo co’ nin farani äd tutt chi sòld li, magnarani tri galètt al di?”. Scherzi a parte era portatore di un’etica del dovere e del servizio e reagiva, alla sua maniera, alle incongruenze clamorose della società.
Se il comunismo, duro o morbido che sia, ha fatto il suo tempo, la sinistra politica dovrebbe riprendere a fare il suo mestiere, vale a dire a farsi carico delle difficoltà sociali non solo per rappresentarle occasionalmente e polemicamente, ma per assumerle nelle proprie credibili ed agibili proposte politiche.