Sull’onda dell’annuncio di Emmanuel Macron, anche il primo ministro britannico Keir Starmer ha dichiarato che il Regno Unito nel corso della prossima Assemblea generale dell’Onu prevista per settembre riconoscerà lo Stato di Palestina. A differenza di quella francese, però, la posizione di Starmer è apparsa fin da subito più ambigua: il riconoscimento avverrà, ha detto, “a meno che Israele non compia passi concreti per migliorare la situazione a Gaza”. In altri termini, il riconoscimento dello Stato palestinese viene presentato come una merce di scambio da ritirare se Israele si mostra più “ragionevole”. Una formulazione che ne svuota radicalmente il significato politico e morale. Ma anche volendo prescindere dalle ambiguità di Starmer, che efficacia può avere oggi riconoscere la Palestina? Siamo infatti di fronte a due questioni che, seppur connesse, rimangono distinte. La prima, e più urgente, è lo sterminio quotidiano della popolazione palestinese in corso da mesi nella Striscia di Gaza. Una situazione che sempre più spesso viene definita da giuristi, studiosi e perfino da organizzazioni israeliane come genocidio. È in atto un’azione intenzionale e sistematica di annientamento di una popolazione, come dichiarato apertamente da numerosi esponenti del governo israeliano. È in corso una carestia indotta, provocata deliberatamente dal blocco degli aiuti umanitari e dalla riorganizzazione dei canali di distribuzione. Questi fatti, da soli, configurano crimini di guerra e crimini contro l’umanità che prescindono completamente dai torti e dalle ragioni di questa guerra. La seconda questione è quella, certamente più ampia e di lungo periodo, della soluzione politica al conflitto israelo-palestinese, indispensabile per creare una situazione di pace duratura e per la quale il riconoscimento dello Stato di Palestina potrebbe rivestire un valore politico importante. Ma oggi l’urgenza è la prima e risulta difficile capire in che modo il riconoscimento di uno Stato che non esiste possa concretamente incidere sullo sterminio in corso. È lecito domandarsi se e come questo atto formale possa esercitare una pressione su Israele tale da modificarne la strategia. Che tipo di minaccia costituirebbe, agli occhi di un governo che continua a operare in piena impunità, e che le potenze occidentali da un lato redarguiscono e dall’altro continuano a sostenere?
Se l’annuncio del riconoscimento dello Stato palestinese fosse accompagnato da misure concrete – l’interruzione delle forniture militari, la sospensione degli accordi commerciali, l’imposizione di sanzioni economiche – allora sì che si riempirebbe di significato. Esistono ormai appelli espliciti in questa direzione anche all’interno della società civile israeliana. E un significato ancora maggiore l’avrebbe se a questo riconoscimento fossero associate dichiarazioni circa l’intenzione di dare attuazione ai mandati di arresto internazionali nei confronti di Netanyahu e degli altri esponenti del governo israeliano accusati di crimini di guerra. Allora sì che saremmo di fronte a un cambio di rotta reale. Ma nulla di tutto questo è stato detto. È difficile, quindi, considerare questi annunci come qualcosa di più di un tentativo (peraltro tardivo) di rimediare in qualche modo alla disastrosa immagine internazionale che i paesi alleati di Israele stanno offrendo da mesi. Finché ci si limiterà a formule simboliche, prive di effetti concreti, il loro impatto sarà nullo. La strage quotidiana che si consuma a Gaza ha bisogno di risposte immediate, non di vibranti proteste né di promesse future. Ed è proprio questa distanza tra l’urgenza dei fatti e l’inconsistenza delle reazioni politiche a misurare, ancora una volta, il fallimento della comunità internazionale. (MicroMega – Cinzia Sciuto)
È curiosamente stucchevole in questo momento sollevare la questione del riconoscimento dello Stato di Palestina: non è bello fare il processo alle intenzioni, ma appare come il goffo tentativo di nascondere la vergognosa inettitudine occidentale dietro l’intempestivo dito del buonismo geopolitico.
D’altra parte da decenni i governi israeliani se ne fregano altamente dell’Onu e dei suoi reiterati inviti ad abbandonare i territori sempre più occupati. Non diversa sorte toccherà al riconoscimento dello Stato palestinese e al suo ingresso a pieno titolo tra i Paesi facenti parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Non voglio essere più realista del re, ma, se gli Usa non cambieranno atteggiamento verso Israele, niente e nessuno potrà condizionarlo decisamente e pesantemente. La lobby israeliana è fortissima negli Stati Uniti, è capace di influire addirittura sull’elezione presidenziale e sulle conseguenti scelte politico-programmatiche.
All’interno di Israele spadroneggia la casta religiosa ebraica in un vomitevole mix di potere religioso ed economico. Tutti lo sanno, nessuno lo ammette apertamente e chiede di laicizzare lo Stato (sarebbe comunque un processo pressoché impossibile).
Sul piano etico-culturale, è penoso doverlo ammettere, i perseguitati si sono trasformati in persecutori, nascondendosi dietro una storia di immani sofferenze patite in passato, che finisce col legittimare paradossalmente le attuali sofferenze inflitte ai palestinesi. Il cretinismo antisemitico fa da paraninfo. Il terrorismo islamico funziona da alibi.
L’Unione europea è, come sempre, ondivaga e inconcludente. I francesi dall’interno e gli inglesi dall’esterno giocano a fare i primi della classe, a fare la parte del poliziotto buono che, tutto sommato, è peggio di quello cattivo.
Sembra oltre tutto inarrestabile il flusso di armi atto a rendere lo Stato di Israele sempre più forte e intoccabile. Cosa serve riconoscere lo Stato di Palestina ed al contempo continuare imperterriti a rifornire di armi chi lo vuole asfaltare e cancellare prima ancora che nasca.
In questo desolante quadro è meglio puntare sulla mobilitazione delle opinioni pubbliche, quella israeliana in via di maturazione critica e quelle occidentali toccate nel cuore dall’autentico genocidio in atto: non basterà, ma sempre meglio e sempre più (restando in area occidentale) del cattivista Trump, del buonista Macron, dell’economicista Merz e dell’opportunista Meloni.
Meglio suonare le campane delle chiese e dei palazzi comunali, le sirene delle barche e i clacson delle auto, i fischietti e le pentole e qualunque altra cosa possa aiutarci a disertare il silenzio che avvolge il genocidio di Gaza.
Chissà che qualche governante non prenda paura, ma soprattutto chissà che non si rompa la cappa protettiva mediatico-diplomatica, che ricopre gli sporchi affaracci israeliani.