Pace è una parola impegnativa. La userei con parsimonia: dato il carico enorme di odio, di sfiducia, di rancore, parlare di pace mi sembra prematuro. Ora dobbiamo lavorare per crearne le condizioni. Aprire percorsi che conducano alla pace. Il primo passo è il cessate il fuoco. Le parti starebbero mostrando maggiore flessibilità. Il condizionale, però, è d’obbligo, non è la prima volta che salta tutto all’ultimo. Poi si dovrà costruire il dopo. Al momento non si capisce quale sia il progetto, questo rende così difficile finire la guerra.
L’Amministrazione Trump pensa a un piano regionale di normalizzazione tra Israele e gli altri Paesi della regione…
Su questa idea pende, come una spada di Damocle, la questione palestinese. Se non la si risolve, tutto sarà terribilmente fragile.
La soluzione sono i due Stati?
È quella ideale, ma ora Israele la rifiuta. Va trovata una formula creativa.
Che contributo può dare la Chiesa per aiutare a immaginare il futuro?
La grande sfida è creare, poco alla volta, una narrativa diversa da quella attuale, esclusiva e escludente, che disumanizza l’altro. I cristiani devono essere capaci di proporre un linguaggio alternativo, di reintrodurre nel dibattito pubblico parole come persona, dignità, rispetto, ascolto. Termini, forse, banali ovunque. Ma non da queste parti. La Chiesa non può fare da sola questo lavoro: deve coinvolgere tutte le altre fedi e collaborare con le tante organizzazioni e i movimenti per il dialogo presenti e vive nelle società israeliana e palestinese.
(dall’intervista di “Avvenire” al cardinale Pierbattista Pizzaballa patriarca di Gerusalemme)
Parlare di cessate il fuoco, peraltro garantito da un autentico guerrafondaio come Trump, al di là del minimalismo concettuale è un esercizio (quasi) penoso; parlare di pace è semplicemente velleitario in un clima di odio sempre più radicato e istigato. Anche i generici appelli alla pace (persino quelli papali), se non sono accompagnati da gesti e posizioni radicalmente precise e concrete, lasciano il tempo che trovano, anche perché spesso tradiscono intenti meramente propagandistici, volontà di pulirsi solo formalmente la coscienza, maldestri tentativi di assolvere funzioni istituzionali.
Secondo la narrazione storica, culturale, religiosa e geopolitica, il colpevole di tutto è ormai individuato: Hamas ha provocato terroristicamente la guerra, non vuole restituire gli ostaggi, non vuole alcun accordo, boicotta il dialogo, strumentalizza la disperazione palestinese, fomenta l’odio, etc. etc. Questa è la lente deformata e deformante con cui viene analizzata e affrontata la situazione. Partendo da queste premesse è impossibile aprire un confronto: se si truccano le fondamenta non si riesce a costruire nulla e, se momentaneamente l’edificio regge perché tirano i quattro venti dei superpotenti, ben presto crollerà miseramente tutto.
Mi convinco sempre più che la pace è dono di Dio e non costruzione umana. Anche questa verità però può essere falsata e sporcata dall’integralismo religioso. “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori” (salmo 126). Gli ebrei hanno purtroppo la riserva mentale di avere comunque Dio dalla loro parte: posizione analoga quella dei musulmani. Da cristiani non rimane altro che sforzarsi di essere, evangelicamente parlando, costruttori di pace nel nostro piccolo mondo, lasciando i massimi sistemi alle loro perverse logiche.
E la politica? Questo è il problema! Serve protestare? Sì! Serve discutere e dialogare sul tema della pace? Sì! Serve analizzare le situazioni e farsi un’idea contro corrente? Sì! Serve soffrire per le vittime innocenti della guerra? Sì! Serve leggere e rileggere le idee dei profeti di pace. Sì, molto più che ascoltare le tiritere e le narrazioni provenienti dai media. Il profeta Giorgio La Pira riusciva a coniugare una fede smisurata con un inesauribile impegno politico fuori dagli schemi. Lui saltava tutte le paralizzanti intermediazioni, andava dalle preghiere delle suore di clausura agli incontri provocatori con i potenti della terra.