La corsa al riarmo dell’Europa sembra essere ineluttabile, ma più che i propositi bellicosi in questa fase preoccupano le parole d’ordine. Non che i fatti delle ultime ore, messi in fila, non appaiano preoccupanti: solo ieri il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha spiegato la decisione di Berlino di togliere limitazioni alla gittata delle armi vendute all’Ucraina come un allineamento del suo Paese alle scelte di altri partner europei, proprio mentre il Consiglio Ue dava il via libera al primo grande programma di investimento militare comunitario, il cosiddetto programma Safe, pari a 150 miliardi e destinato agli Stati membri che intendono rafforzare le proprie capacità in settori come la difesa missilistica e i droni.
Progetti e risorse destinate a cambiare per sempre l’economia del Vecchio continente. Davvero ci stiamo preparando ad abbandonare l’epoca gloriosa del welfare state per passare al warfare state? Dallo stato sociale a uno stato di guerra? Come ha ribadito ieri il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, nella sua Introduzione ai lavori del Consiglio permanente, «non possiamo non ribadire che la produzione industriale che vuole riconvertire in armi alcune delle aziende in crisi non fa bene né alla nostra economia né al mondo». Ma che ne pensano, in tutto questo, le opinioni pubbliche del vecchio Occidente?
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L’insensata cavalcata bellica pare essere una strategia decisa a tavolino dalle cancellerie e dai palazzi del potere e il paradosso è che ciò sta avvenendo nel momento di maggior fulgore dell’avanzata populista. Proprio adesso che i leader si fanno vanto di interpretare gli stati d’animo genuini dei loro popoli, si avverte ancor più nettamente lo strappo tra le élite e la base che si voleva ricomporre. L’orrore per quanto sta avvenendo a Gaza e lo stato di assuefazione per la guerra in Ucraina, di cui ancora non si vede la fine, hanno avuto l’effetto di ricompattare tante persone di buona volontà cresciute in tempo di pace, ostili per formazione e per cultura ai nuovi slogan.
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È inutile applaudire all’invito alla «pace disarmata e disarmante» di Papa Leone XIV se poi si procede in direzione contraria. Varrebbe forse la pena ascoltare i racconti di chi opera negli scenari di guerra per far tacere le armi. In questi giorni abbiamo visto in Italia lenzuola bianche esposte ai balconi per le vittime della Striscia, abbiamo assistito ai digiuni di solidarietà attuati dai sindaci, abbiamo raccolto proposte su ponti umanitari necessari a salvare i superstiti delle bombe in Medioriente. Ecco: sono questi segnali di ribellione civile, composta ma dignitosa, i pilastri su cui costruire una nuova architettura di pace. Nulla, per fortuna, è ancora perduto. (dal quotidiano “Avvenire” – Diego Motta)
Le opinioni pubbliche vanno in senso opposto rispetto ai governanti, ma i governanti sembrano fregarsene altamente. Fino a quando? Attualmente la prospettiva bellica non scalda i cuori come purtroppo avveniva un tempo.
Resta però un inquietante interrogativo: come mai la gente, che sembra prevalentemente e fortemente ostile alla logica bellica che sta imperversando, quando si tratta di andare al voto, concede così tanta preferenza per i partiti politici inguaiati nel pragmatismo se non addirittura nel fanatismo bellico? Voglio sperare che non esista una divaricazione nelle coscienze: ripudio della guerra a livello personale e sociale, accettazione della guerra a livello politico, come se la politica dovesse viaggiare necessariamente su un altro binario rispetto alla volontà popolare. In teoria siamo contrari, ma in pratica…
I governanti tendono furbescamente a squalificare le proteste di piazza, bollandole come sfogatoio di insensati visionari e di utili idioti. È comodo prendere a riferimento un gruppo di facinorosi per infangare una massa di cittadini che protesta civilmente. È altrettanto comodo assimilare i pacifisti ad irragionevoli venditori di fumo, dividere la gente fra buonisti e realisti.
La premier Giorgia Meloni ha rispolverato il famoso detto “si vis pacem para bellum” per giustificare la insensata scelta riarmista italiana: nemmeno mediata dalla necessità di una fantomatica difesa comune europea, ma situata nella logica di rispondere a livello nazionale alle provocazioni trumpiane in sede Nato.
La narrazione prevalente a livello politico europeo è quella di stare dalla parte del manico riarmista per difendersi dai pericoli dell’imperialismo russo. Rifiuto categoricamente questa logica per diversi motivi. Innanzitutto, sarò ingenuo, ma non vedo questo rischio immanente e questa conseguente necessità impellente. In secondo luogo sono convinto che la diplomazia rappresenti l’unico strumento strategico adottabile e che la politica abbia un senso solo se parte dal perseguimento della pace ad ogni costo. In terzo luogo, da cattolico credente e praticante, ritengo che il porgere l’altra guancia non sia una impossibile virtù, ma un’assoluta necessità. Da ultimo si intravede nelle prospettive riarmiste soprattutto la possibilità di rilanciare l’industria pesante a livello europeo, soprattutto germanico, e statunitense: il folle perseguimento di una economia di guerra.
E poi, non accettiamo anche la criminale e vendicativa guerra di Israele contro i palestinesi? Ci dobbiamo difendere anche dai palestinesi e magari da Hamas? Ma fatemi il piacere… Siamo dentro in una spirale e non riusciamo a venirne fuori.
Mi sembrano piuttosto flebili le voci pacifiche e decisamente deboli le unificanti iniziative per la pace: tuttavia insistiamo. La strada giusta è questa. Bisogna avere fede incrollabile a livello sociale (protestare) e… religioso (pregare).
Mio padre, ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra, reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: «Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?».
Un mio carissimo amico in questi giorni mi ha inviato il seguente messaggio: “Mi sembra che a dettare la traiettoria della pace non siano né Trump, né l’Europa, né la diplomazia vaticana (già, sembra, messa in discussione dai russi), ma solo Putin. Deve averlo capito bene Prevost, che a fine udienza di mercoledì ha invitato i fedeli a pregare ogni giorno il rosario per la pace, richiamando il messaggio di Fatima. Subito il pensiero va al grande Giorgio La Pira, che faceva pregare le suore di clausura di tutto il mondo, richiamandosi al messaggio di Fatima. Scriveva ad una superiora: ‘La più potente forza storica che muove i popoli e le nazioni, che finalizza la storia intera è l’orazione’. Come vorrei avere una briciola della sua fede!!! Preghiamo anche noi un po’ di più per la pace, per la fine del massacro del popolo palestinese e del martoriato popolo ucraino e perché lo Spirito Santo illumini qualche politico capace e umano di cuore”.