Il tempio profano del dio-calcio

“Non è solo uno stadio quello in cui ci troviamo, seppure intitolato al più grande calciatore di tutti i tempi, è un tempio laico, che esonda di amore e di passione, non è solo una partita quella che ci accingiamo a raccontarvi, è un modo di ripassare a memoria un intero anno, fatto di gioie irrefrenabili e di delusioni cocenti, non è solo una città quella che ci ospita, è la culla di un popolo nel cuore del Mediterraneo, abituato a vivere sospeso tra una montagna infuocata e un mare che non riposa mai”.

Questo è l’incipit della radiocronaca di Francesco Repice su Rai 1 della partita Napoli-Cagliari, decisiva per l’assegnazione dello scudetto relativo al campionato di calcio. Povero Repice…mi ha fatto pena. Penso che se la fosse preparata, ma forse era meglio che avesse riflettuto un attimo prima di sparare simili cazzate. Potrebbe finire tutto con questa commiserazione, senonché il discorso è un tantino più complesso e delicato.

Quando succede qualche fatto increscioso sui campi di calcio, tutti si scandalizzano, stupendosi della violenza che si sfoga negli stadi e condannando la degenerazione del fenomeno sportivo in una vera e propria guerra tra opposte tifoserie, salvo poi enfatizzare a dismisura l’evento calcistico anziché riportarlo nel solco del normale agonismo e della normale passione.

Da una parte abbiamo un vero e proprio sistema affaristico che nulla ha da spartire con lo spirito sportivo; dall’altra parte abbiamo uno sfogatoio fatto di violenza, razzismo e intolleranza; in mezzo la prezzolata e vergognosa opera dei media che pompano il pallone salvo rammaricarsene quando scoppia.

Lo stadio trasformato in tempio laico, una partita resa specchio della vita di un anno, una cittadella sportiva assimilata alla culla di una civiltà. Non stiamo esagerando?  Non stiamo concedendo un assist retorico al calcio-regime strizzacervelli? Non stiamo trasformando il folclore in visione esistenziale? Non stiamo riempiendo gli stadi di assurdi contenuti culminanti nella peggiore delle subculture?

Il Napoli calcio ha vinto il campionato: complimenti! Ma per cortesia non diamo a questo fatto un significato socio-culturale che non ha, tipo la vittoria di una città, il riscatto di un popolo, la gioia per un traguardo sociale, etc. etc.

“Panem et circenses”, in italiano “pane e giochi”, è una locuzione latina che indica un modo di gestire il popolo, offrendo principalmente cibo e intrattenimento per distogliere l’attenzione da questioni più importanti e mantenendo il consenso. Nel caso del modulo calcistico si offre soltanto un gioco, spacciandolo per fatto socio-culturale zeppo di contraddizioni e strumentalizzazioni, facendone un fenomeno di distrazione di massa con tutte le degenerazioni conseguenti.

Mia madre osservava in modo attento, ma disincantato, le vicende del mondo del calcio: mi faceva compagnia mentre guardavo le partite in televisione, se ne usciva con osservazioni e domande simpatiche ed acute. A volte, davanti al vortice degli eventi calcistici accompagnati dalle solite ed insulse sbornie mediatiche, si lasciava andare ad una sferzante domanda/commento: «Cò farisla tùtta cla genta lì, se neg fis miga al balón?».  Ben detto dei protagonisti principali, secondari e terziari di un mondo sempre più paradossale ed assurdo: quelli che io amo chiamare “magnabalón”.

Troppa gente vive di pallone, anche i cronisti televisivi e radiofonici, e finisce col tentare di mandarci tutti nel pallone, a cominciare da quei giovani che non esitano a scatenarsi in violenze di ogni tipo quasi a rifiutare che la vita reale sia ben altra cosa.

Durante una fase particolarmente concitata di una partita di calcio, in occasione di un affondo pericoloso dell’attacco parmense, un giocatore si trovò quasi a scontrarsi col portiere avversario ed in quel preciso momento scattò una frase urlata, di quelle strozzate in gola, cattive quanto assurde, che incitava, si fa per dire, l’attaccante nei confronti del portiere: “Dai, masol!”.

Per fortuna il giocatore del Parma, che forse non sentì neanche l’urlo, si comportò da persona seria, desistette dall’intervenire e, come si dice in gergo, saltò il portiere. Bene così. Ma a mio padre non sfuggì quell’urlo violento proveniente da un tifoso alle nostre spalle e riuscì ad individuarlo con assoluta precisione e ad apostrofarlo con una battuta amara, una domanda retorica:“Mo ti, pr’un balón, masòt un òmm? Mo sit stuppid?”

L’interessato farfugliò una risposta ancora più assurda dell’urlo in questione, non la ricordo bene e non cerco neanche di ricordarla, perché l’unica risposta sarebbe stato il silenzio, quel virtuoso e professionale silenzio che dovrebbero fare anche gli operatori del calcio parlato. Ma poi di cosa vivrebbero? Potrebbero cambiare mestiere…