Errare humanum est, perseverare diabolicum. Se il sì del Partito democratico (e dei Socialisti europei) al secondo mandato di Ursula von der Leyen è stato, a luglio, un gravissimo errore, un nuovo sì alla vicepresidenza di Raffaele Fitto rappresenterebbe ora un diabolico accanimento, e soprattutto certificherebbe l’incapacità del Pd di elaborare una prospettiva politica – e, prima, culturale – alternativa a quella che ha condotto l’Europa alla negazione stessa della sua ragione di esistere.
L’Europa nacque con una missione su tutte: sradicare la guerra dal continente, spegnendo per sempre il fuoco dei nazionalismi europei. Rinnegando tutto questo di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, invece di imporre subito le inevitabili trattative di pace (e di farsene sede e promotrice) l’Unione si è trasformata in una succursale della Nato, ha messo la guerra e le armi in cima alle sue ragioni sociali, e la sua presidente tedesca ha rispolverato una atroce retorica della vittoria che ha ridato diritto di cittadinanza a fantasmi osceni, che credevamo esorcizzati per sempre, almeno in Europa. Confermando Von der Leyen, i socialisti, e con loro il Pd, si sono schierati dalla parte della guerra, del tradimento dell’idea stessa di Europa: nel migliore dei casi, un chiaro segnale di impotenza politica.
Se ora il Pd decidesse di votare anche per il commissario Fitto “perché è italiano”, l’intera operazione assumerebbe un colore anche più nero, perché significherebbe soddisfare “lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo”. Sono, queste, parole del Manifesto di Ventotene (1941), altissimo programma morale per l’Europa che sarebbe nata dopo la guerra. Un suo passaggio centrale prendeva atto che “la linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale”. Sembravano parole antiche: oggi tornano attualissime. (da “Il Fatto Quotidiano” – Tomaso Montanari – storico dell’arte e saggista)
Il partito democratico deve capire che una vera politica di sinistra non parte dalle casalinghe scaramucce con i parenti serpenti, ma dai massimi sistemi ideali e valoriali che oggi più che mai si chiamano pace ed Europa unita. Si potrebbe dire che il punto focale sia quello dell’Unione europea a servizio della causa della pace (e viceversa) e, come premessa e conseguenza, al di sopra dei nazionalismi e patriottismi riveduti e scorretti. Era stata ideata così e c’è bisogno di tornare allo spirito dei padri fondatori.
Ebbene, la nomina di Raffaele Fitto a commissario e vice-presidente della Commissione europea viene sbandierata dal governo italiano come una unificante conquista patriottica, mentre in realtà è il risultato di una velleitaria, soffocante e campanilistica azione antieuropea.
Il PD rischia di cadere nella ricattatoria trappola del vogliamoci bene per difenderci dall’Europa anziché rimanere dignitosamente e coraggiosamente ancorato alla visione salvifica dell’Europa cha abbatte gli steccati nazionali.
È ora di uscire dalla melassa unitaria guerrafondaia e sostanzialmente reazionaria di un lasciamoci reciprocamente in pace, ognuno a casa sua: europeisti fino a mezzogiorno, poi, quando si fa sul serio, tutti per uno e ognuno per sé. Mi permetto al riguardo una emblematica digressione estratta dai ricordi di vita parentale.
Alla vivacità socio-culturale di mio padre si aggiungeva occasionalmente quella di suo fratello, uno zio che veniva di rado a trovarci, partendo da Genova dove abitava con la sua famiglia e dove lavorava. Si inseriva perfettamente nel contesto familiare e portava il suo alto contributo al clima “battutistico”, anche perché aveva mantenuta intatta la verve parmigiana e continuava a padroneggiare l’uso del dialetto mischiandolo a volte con quello genovese. Ne sortiva una miscela esplosiva di sortite originali e accattivanti.
Quando tornava a Parma e incontrava gli amici di un tempo si ricreava immediatamente il rapporto cameratesco condito dai ricordi. Al termine di questi fitti dialoghi mio zio sparava quasi sempre una simpatica battuta. Al momento dei saluti rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vól gnir a catär…sta a ca tòvva».