La “referendumite” acuta

Tutti questi temi sono finiti o stanno per finire in una nuova stagione referendaria che si annuncia carica di significati politici e sociali, specie se a chiudere il cerchio sarà, come prevedibile, il referendum confermativo sul premierato. Ma se il quesito abrogativo dell’autonomia differenziata ha immediatamente goduto della grancassa mediatica, grazie all’appoggio massiccio di un vasto schieramento di forze politiche, sindacali, sociali e associative, i quesiti referendari per superare la legge elettorale e introdurre elementi di democrazia interna ai partiti – questioni sulle quali la politica stessa a parole si straccia le vesti un giorno sì e l’altro pure – veleggiano in solitaria e controvento. Tutta la politica dice che il tema è vero e urgente, eppure i quesiti ora in campo sono abbandonati nei fatti da un sistema dei partiti che evidentemente non vuole abbandonare i benefici dell’attuale assetto. È comprensibile: a chi non farebbe gola nominare i parlamentari a tavolino e gestire una forza politica senza dover dare conto più di tanto a istanze pluralistiche? (dal quotidiano “Avvenire” – Marco Iasevoli)

Il quadro politico-istituzionale evidenzia tali e tanti punti di criticità da rendere difficile, ai limiti dell’impossibile, trovare un percorso risanatore, che possa quanto meno avviare un dialogo (ri)costituente.

Non sono mai stato convinto che la partecipazione diretta dei cittadini (referendum abrogativi, leggi di iniziativa popolare, raccolte di firme) possa sanare in modo decisivo la frattura fra cittadini ed istituzioni: può certamente servire il fatto che il popolo batta uno o più colpi, ma non illudiamoci che la democrazia possa consistere in queste straordinarie iniziative.

Credo, tutto sommato, che alla gente interessi molto di più avere una classe politica che li rappresenti e operi di conseguenza piuttosto che intromettersi nel circuito. Il referendum abrogativo dell’autonomia differenziata potrà servire solo ad evitare un pasticcio istituzionale cucinato dalle forze governative, almeno si spera, ma di pasticci ce ne sono troppi e, finito uno, ecco che ne spunta un altro.

I partiti non si devono rinnovare cambiando a colpi di referendum la legge elettorale o i meccanismi di democrazia interna. I partiti sono strumenti imprescindibili di aggregazione e partecipazione. A cosa è servito eliminare il finanziamento pubblico ad essi se non quello di darli in pasto al mercato delle tangenti? A cosa servì eleminare il meccanismo delle preferenze se non a centralizzare e burocratizzare i meccanismi di selezione della classe dirigente partitica? A cosa servono i limiti alle ricandidature se non a penalizzare i buoni e a dare contentini ai balordi? A cosa serve un sistema elettorale maggioritario se non a favorire finte ed equivoche aggregazioni politiche? A cosa serve un sistema elettorale proporzionale (magari con certi correttivi) se non a sciogliere la politica disperdendola in mille inconcludenti rivoli?

Non illudiamoci di risolvere i problemi imboccando scorciatoie referendarie, la politica è molto più complessa: se non si parte dai valori non si combina niente! Sono finite le ideologie? Purtroppo sono finite le idee! Di cosa si sta discutendo in questo periodo? Se Giorgia Meloni sia brava, furba, furbastra? Ma fatemi il piacere… Quella vuole il premierato per mettere le radici a Palazzo Chigi. Non mi preoccuperei più di tanto, le radici attecchiranno non per legge ma per ignoranza di chi vota col… (mi fermo perché il concetto è chiaro!).

Il ripristino della “legalità politica” non avviene per legge, a colpi di referendum, ma per paziente rilettura storica, culturale e sociale del mondo in cui viviamo. Poi forse qualcosa potrà anche cambiare. Le regole fondamentali del gioco sono scritte nella Costituzione: bisogna imparare a giocare e non pensare di cambiare le regole del gioco. E se qualcuno le vuole cambiare a colpi di maggioranza, continuiamo a giocare al meglio con le vecchie regole dimostrando di esserne capaci senza necessità di far saltare il tavolo perché potrebbe essere molto pericoloso.

Un tempo si teorizzava ironicamente che per (non) risolvere un problema bastasse costituire una commissione parlamentare, non vorrei che oggi pensassimo che per (non) risolvere un problema basti indire un referendum. Un referendum al giorno toglie l’astensionismo di torno?

Quando entrò in vigore l’iva fece un certo scalpore l’introduzione di un documento strano, la cosiddetta autofattura, che in certi casi il compratore si vedeva costretto ad emettere al posto del venditore. Un mio simpatico interlocutore, impressionato da questa novità legislativa, quando mi poneva un problema in materia di imposta sul valore aggiunto, finiva col chiedermi in ogni caso: «Co’ disol dotôr, ag fämmiä n’autofatura?». Oggi, politicamente parlando, di fronte a qualsiasi problema potremmo chiederci: «Fämma un referendum?».