Difesa comune sì, riarmo comune no

Guardando anche al rapporto tra UE e Stati Uniti nell’anno della campagna elettorale statunitense e alla vigilia di vertici fondamentali sia per l’Unione che per l’Alleanza, il capo dello Stato ha voluto sottolineare la necessità per l’UE di “elevare il livello del suo impegno, e a farlo con urgenza”.

Per Mattarella, “è una riflessione che oggi si incentra sulla creazione finalmente di una difesa comune, dopo i tentativi senza risultati alla fine del secolo scorso”, perché spesso la UE è stata una “mera spettatrice di avvenimenti di cui subiva gli effetti negativi”.

Secondo il capo dello Stato, “dotare l’Unione Europea di una autonomia strategica superiore consentirà alla NATO di essere più forte, proprio in ragione della complementarietà fra le due Organizzazioni, con il rafforzamento di uno dei suoi pilastri, oggi più fragile”. Più fragile “perché il ridotto stato di coordinamento e integrazione produce limitate capacità pur a fronte di grandi impegni finanziari”, ha proseguito il presidente della Repubblica, secondo cui la rimozione di questa condizione “andrebbe a beneficio di tutti in un mondo irreversibilmente contrassegnato dal ruolo di grandi soggetti internazionali”.

Infine, Mattarella ha citato Luigi Einaudi, il quale riferendosi all’Europa, nel 1954, ricordava che lo spettro delle decisioni per i Paesi del continente si riduceva a “l’esistere uniti o lo scomparire”.

“L’esperienza dell’Alleanza Atlantica ci conferma il valore di una storia che, in 75 anni, non ha mai tradito l’impegno di garanzia a beneficio dei 32 Paesi che ne fanno parte: uniti nella difesa della libertà e della democrazia. Un valore che conferma l’importanza del multilateralismo fatto proprio dalla nostra Repubblica”, ha concluso Mattarella. (da Euractiv)

L’alto monito di Mattarella mi colpisce e mi interroga. Tutto è perfettamente, storicamente e geopoliticamente in linea. C’è però un però. Difesa comune sì, ma riarmo comune no. Se difendersi assieme vuol dire spendere e spandere in armi, stanziare fondi enormi a danno degli enormi problemi sociali che ci angustiano, accarezzare una logica di equilibrio bellicista, non ci sto. Non è questa l’Europa a cui guardo e che desidero ardentemente.

È pur vero che anche i pionieri e i fondatori dell’Europa unita mettevano in assoluta priorità la difesa comune, ma era un’altra epoca, venivamo da una guerra mondiale basata sullo strapotere di una nazione, avevamo bisogno di garantirci una pace facendo blocco comune.

Anche oggi sarebbe importante avere un esercito comune purché consenta di razionalizzare, modernizzare e risparmiare nella difesa: nutro seri dubbi al riguardo, vuoi per i nazionalismi più o meno sotterranei duri a morire, vuoi perché basare il patto europeo sulle armi non mi convince affatto.

Si sente la necessità di un’Europa unita che parli un linguaggio comune, che conti qualcosa nello scacchiere internazionale e che non si limiti a fare da cassa di risonanza agli Usa e alla Nato. Però non partirei dalle armi, ma da una politica sociale (pensiamo al problema migratorio) ed economica comune.

Nei giorni scorsi in concomitanza con la celebrazione della festa della Liberazione si è riproposto il dibattito sul parallelismo tra la resistenza al nazifascismo e quella dei popoli, come l’Ucraina, all’invasore di turno. Rifuggo dalle semplificazioni storiche e preferisco attestarmi sul risultato fondamentale della guerra di liberazione, vale a dire il raggiungimento della pace basata sulla democrazia e viceversa, consacrato nella Costituzione che all’articolo 11 recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Gli schemi bellicisti vengono quindi categoricamente superati e ribaltati: l’Ucraina doveva e deve essere difesa in ben altro modo rispetto al reiterato e scriteriato invio di armi da parte soprattutto degli Usa, vale a dire ricorrendo alla diplomazia a livello internazionale sulla base dei trattati in vigore, con una politica concordata e portata avanti a livello Ue, con l’intervento dell’Onu, al di fuori di ogni e qualsiasi logica imperialista.

La fine del nazifascismo doveva rappresentare l’instaurazione di un regime globale di pace, libertà e resistenza a qualsiasi assetto bellicista, in cui gli intenti imperialisti avrebbero dovuto trovare il contrappeso automatico ed efficace nel patto democratico delle nazioni. Non è andata così e non sta andando così anche perché l’Occidente ha sempre confuso la difesa dei popoli proditoriamente invasi con il perseguimento di una politica di potenza inquadrabile nella guerra fredda e/o negli equilibri tra i “grandi” della terra. Si trova sempre un motivo per guerreggiare, mentre non si fa nulla per prevenirne le cause.

Mio padre sosteneva che quando si tratta di armi e di eserciti è facile trovarsi d’accordo, molto più difficile quando si parla di pace, di giustizia sociale e di progresso. Non vorrei che prendessimo la strada apparentemente più facile e comoda, che non so dove porti. Anzi lo so e non la vorrei proprio percorrere. Alle prossime elezioni europee voterò soltanto per chi mi darà sufficienti garanzie per una politica di pace. Altrimenti mi asterrò, perché non voglio avere alcuna responsabilità civile e morale in merito alle derive belliciste di cui è pieno il mondo. Caso mai, anziché scrivere “Giorgia” sulla scheda seguendo il narcisistico consiglio della signora “Cocomeri”, scriverò “Pace”.

Sarò un poeta, un idealista, un sognatore, ma sempre meglio sognare la pace che concretizzare, seppure razionalmente, i presupposti della guerra.