Mattarella e il professore

Massimo Cacciari, filosofo ed ex sindaco di Venezia, in un’intervista al Corriere del Veneto sostiene che non abbia senso parlare di antifascismo in questo momento storico e, di conseguenza, «non serve a niente chiedere di dichiararsi antifascisti». 

Secondo Cacciari «è inevitabile che in campagna elettorale si possa cercare ogni mezzo per colpire l’avversario, ma dal punto di vista culturale e storico non serve a nulla, non esiste alcun pericolo fascista».

«Il mondo contemporaneo non presenta blocchi sociali né interessi di classe che portino a totalitarismo. Non vuol dire che sia una democrazia perfetta ma non ci sono forme autoritarie, nessun pericolo di totalitarismi fascisti, come sono stati quelli del Novecento. È solo propaganda fatta quando destra e sinistra non hanno altri argomenti». 

«Chi è veramente fascista oggi è un povero scemo, fuori dalla realtà: magari qualcuno c’è ma sono pochi. E di sicuro non Meloni. L’ha capito lei e quasi tutti i suoi dirigenti. Antifascismo è diventato una parola vuota da quando non è più declinata o incarnata in dei progetti. È come dire che bisogna essere sempre onesti, o che la mamma è buona. Sono concetti generici».

 In Italia c’è ancora bisogno di parlare di Resistenza e fare Resistenza?
«Sì, come no. Ma anche qui, non contro Mussolini o un’invasione. È una resistenza rispetto a un sistema politico incapace di fare l’interesse materiale del proprio Paese, non contro qualcuno che ti assale, ma per imporre la linea nell’interesse del Paese. Ma c’è più bisogno di una vera opposizione, a mio modesto avviso».

«Cosa farò il 25 aprile? Non lo so, al momento penso niente. Spesso ho tenuto dei discorsi, anche di recente. Sono stato in luoghi simbolici della storia di quegli anni, anche a Marzabotto. Ho parlato di storia, una storia che pesa, che ha ferito, che ha diviso gli italiani e massacrato l’Europa. È un passato che bisogna conoscere». (da Globalist.it)

 

«Senza memoria, non c’è futuro», ammonisce Sergio Mattarella, «il 25 aprile è per l’Italia una ricorrenza fondante: la festa della pace, della libertà ritrovata, e del ritorno nel novero delle nazioni democratiche». Il presidente della Repubblica a Civitella in Val di Chiana, in provincia di Arezzo, per ricordare l’eccidio del 29 giugno 1944, per rappresaglia sulla popolazione inerme, oltre 200 persone, terzo nel tragico computo delle vittime nelle stragi nazifasciste. Il suo è un appello a fare della Festa di Liberazione un evento plurale, unificante e irrinunciabile. Cita Aldo Moro: «Intorno all’antifascismo è possibile e doverosa l’unità popolare, senza compromettere d’altra parte la varietà e la ricchezza della comunità nazionale, il pluralismo sociale e politico, la libera e mutevole articolazione delle maggioranze e delle minoranze nel gioco democratico». Nel citare questo celebre discorso di Moro a Bari, del 21 dicembre 1975, pronunciato in occasione di un incontro dell’Anpi per il Trentennale della Resistenza, è chiaro il riferimento alle recenti polemiche divisive. Non a caso aggiunge a braccio una citazione per Giacomo Matteotti, figura finita al centro dello scontro sul caso Scurati: «Il fascismo aveva in realtà, da tempo, scoperto il suo volto, svelando i suoi veri tratti brutali e disumani. Come ci ricorda il prossimo centenario del suo assassinio». (da “Avvenire.it”)

 

Allo snobistico e professorale giudizio di Massimo Cacciari risponde il presidenziale, coraggioso e unificante messaggio di Sergio Mattarella. Sinceramente non capisco l’ostinazione di Cacciari nel sottovalutare il pericolo di un ritorno, seppure in forme diverse, a derive autoritarie nel nostro Paese. Così come non accetto che l’antifascismo sia da considerare un concetto vuoto, generico e superato nel tempo: il Presidente della Repubblica ne dà la giusta, equilibrata ed emozionante versione. Sì, perché la politica ha bisogna di riscoprire i sentimenti della storia e le lezioni che da essa derivano. Come non ribellarsi ancor oggi di fronte alla ferocia nazifascista e come non commuoversi di fronte al coraggio e al sacrificio degli antifascisti della prima, seconda e terza ora.

Sarebbe come se ci preoccupassimo di ristrutturare e riammodernare le abitazioni di un fabbricato senza prima verificarne la tenuta e la validità delle fondamenta. Non è tempo perso e tanto meno impiegato in nostalgiche e fuorvianti memorie di un tempo che fu.

Mi permetto di parafrasare un passo della prima lettera di san Pietro Apostolo: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il fascismo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella democrazia”.

Ricordo i rari colloqui tra i miei genitori in materia politica: tra mio padre antifascista a livello culturale prima e più che a livello politico e mia madre, donna pragmatica, generosa all’inverosimile, tollerante con tutti. «Al Duce, diceva mia madre con una certa simpatica superficialità, l’à fat anca dil cozi giusti…». «Lasemma stär, rispondeva mio padre dall’alto del suo antifascismo, quand la pianta l’é maläda in-t-il ravizi a ghé pòch da fär…». Poi si lasciava andare a sintetizzare la parabola storica di Benito Mussolini, usando questa colorita immagine: «L’ à pisè cóntra vént…».

Dobbiamo continuamente sorvegliare le radici del nostro albero democratico se vogliamo che produca frutti buoni, altrimenti il rischio è di trovarsi, prima o poi, con una cesta di prodotti apparentemente accettabili, ma sostanzialmente avariati, guasti e immangiabili. E sarà tardi anche perché i filosofi dell’inutilità dell’antifascismo saranno spariti o forse piangeranno sul benaltrismo versato.