Un presidente nobile e una presidentessa miserabile

Mattarella: “Il presidente non è un re. Promulgare le leggi non vuol dire condividerle”. Il Capo dello Stato interviene anche per difendere la libertà di stampa. E fa intendere che è inutile tirarlo per la giacca appena un decreto approda al Colle (dal quotidiano “La Stampa” – Ugo Magri)

Ho l’impressione (da diverso tempo per la verità) che Sergio Mattarella sia costretto a fare da controcanto a Giorgia Meloni o, per meglio dire, al capo del governo in carica. Non passa giorno infatti che, di fronte alle governative sgrammaticature verbali e fattuali, il Presidente della Repubblica intervenga in difesa dello spirito e delle concrete disposizioni costituzionali nonché per precisare portata e limiti dei poteri istituzionali suoi e del governo.

Bisogna ammettere che la voce di Mattarella è l’unica veramente autorevole e credibile che possa contrastare lealmente il tendenziale strapotere governativo impersonificato da Giorgia Meloni. Gli attuali governanti lo hanno capito e cercano in tutti i modi di depotenziarlo e/o di disturbarlo e/o di screditarlo.

Il progetto di legge finalizzato all’introduzione del premierato mira sostanzialmente a spostare rilevanti poteri dal Capo dello Stato (rappresentante dell’unità nazionale ed eletto dal Parlamento) al capo del Governo (eletto direttamente dal popolo ma che, attuale Costituzione alla mano, non dovrebbe rappresentare l’unità nazionale bensì la massima autorità del potere esecutivo). Questo basilare concetto è stato autorevolmente esposto dal professor Tommaso Montanari, saggista e rettore dell’Università per stranieri di Siena.

Siccome questa riforma costituzionale molto probabilmente finirà nel cestino referendario (tanto rumore per nulla), ecco le pretestuose scaramucce tra palazzo Chigi e Quirinale giocate in punta di fioretto (?) che urtano la sensibilità dei cittadini e cominciano a disturbare anche lo stesso Mattarella costretto a precisare, a chiarire, a mettere i puntini sulle i.

A nulla valgono le rituali smentite meloniane – tirare il sasso e nascondere la mano è un giochino vecchio come il cucco -, che assomigliano alle infantili scuse di chi viene colto con le dita nella marmellata costituzionale. Negare l’evidenza è un sistema che non regge in democrazia, a meno che non si creda di vivere in una subdola e strisciante autocrazia.

Alle volgari stilettate di Palazzo Chigi fanno riscontro le garbate e contenute risposte del Quirinale, emergenti dalle parole, dalla correttezza, dall’intelligenza, dalla coerenza, dalla vita intera di Sergio Mattarella.

Prendiamo solo l’episodio più eclatante. Il presidente della Repubblica, stando alle sgangherate esternazioni del capo del governo, non avrebbe la dovuta considerazione per la funzione delle forze dell’ordine. Detta ad un uomo, che ha vissuto il dramma degli attacchi mafiosi fino alla morte del fratello, suona come una autentica blasfemia istituzionale. Il tutto perché ha osato ricordare che usare il manganello contro dei ragazzini non è il miglior modo per dialogare con le giovani generazioni.

E non finisce lì. Ogni giorno spunta un nuovo subdolo e penoso impeachment nei confronti di Mattarella, che dimostra fin troppa pazienza nelle sue reazioni. Sappia Giorgia Meloni che questa tattica non giova a nessuno. Mattarella non è un re anche se il suo tono può essere considerato regale. Meloni non è una regina e il suo tono assomiglia a quello di una romanesca pescivendola in libera uscita. Se proprio dobbiamo trasformare la repubblica in monarchia dovrei augurare lunga vita al re senza una simile regina fra i piedi.