Chi non risica cultura rosica barbarie

Alla fine di due giorni ad altissima tensione, la comunità scolastica dell’Istituto comprensivo “Iqbal Masiq” di Pioltello, hinterland milanese, prova a scrollarsi di dosso il peso delle tensioni che hanno travolto il dirigente scolastico Alessandro Fanfoni. Impresa non facile, stando anche alle parole dello stesso preside, riferite da un collaboratore: «Non me la sento di parlare, in questo momento». Dopo aver subito minacce via social, ora il professor Fanfoni ha paura. Il motivo? Aver previsto la sospensione delle lezioni il prossimo 10 aprile, giorno di fine Ramadam, festa importantissima per i musulmani. Religione cui appartiene oltre il 40% dei bambini della scuola, che si trova in un territorio ad alta densità immigratoria ed è intitolata al dodicenne pakistano ucciso nel 1995 per il suo impegno contro lo sfruttamento del lavoro minorile. A maggio scorso, quando la decisione è stata presa, all’unanimità, dal Consiglio d’Istituto, mai il preside avrebbe immaginato di finire in mezzo a una bagarre politica in piena regola. (dal quotidiano “Avvenire”)

Qualche tempo fa viaggiavo su un bus urbano sul quale la presenza di immigrati era a dir poco preponderante. Mi venne, più istintiva che spontanea, una riflessione ad alta voce: “Di questo passo la nostra cultura dove finirà?”. La domanda coinvolse una gentile e distinta signora italiana vicinissima alla mia postazione. Mi rispose laconicamente: “Dipende tutto da noi…”. Questa affermazione conteneva tali e tante verità da richiedere ulteriori approfondimenti, che non ho potuto effettuare con la persona evidentemente disponibile al dialogo solo perché era in procinto di scendere dal bus; feci appena in tempo a dirle: “Ha perfettamente ragione…”.

Di fronte a una società sempre più multietnica, multiculturale e multireligiosa possiamo adottare due atteggiamenti: chiuderci in una strenua quanto fantomatica difesa del nostro patrimonio oppure aprire un dialogo con chi è portatore di altro patrimonio.

Il mio grande amico e maestro Gian Piero Rubiconi mi ha insegnato e testimoniato che tutto può e deve fare cultura e di conseguenza tutto deve essere condiviso, finanche, diceva lui, le ricette gastronomiche. Era depositario di una stupenda raccolta discografica. I suoi amici lo invitavano a non divulgare troppo i pezzi della sua preziosa collezione per non svalutarla. Lui imperterrito metteva a disposizione di tutti quanto poteva offrire a nutrimento e a godimento della loro passione. La cultura se non è aperta non è cultura, se non è globale non è cultura, se la vogliamo difendere la perdiamo, se la vogliamo gelosamente custodire la condanniamo all’irrilevanza.

La dobbiamo mettere in gioco e naturalmente dobbiamo accogliere, seppur criticamente, ma con rispetto e curiosità, anche quella proveniente dagli altri. Se andiamo in campo religioso il discorso è lo stesso: tutti hanno da insegnarci qualcosa e dobbiamo metterlo in condizioni di farlo. Starà a noi discernere. Questo non è relativismo, è dialogo. Certo non dobbiamo rinunciare a nulla, se non alla pretesa di essere autosufficienti.

Il teologo Vito Mancuso dice: «Lo specifico della nostra epoca è la decadenza spirituale quale appare dalla progressiva perdita di fascino della religione, fino al punto di poter ipotizzare che, per la prima volta nella storia, homo sapiens per lo meno in occidente non sarà più homo religiosus. Ma attenzione: tutto ciò non è dovuto all’umanità occidentale divenuta empia e relativista, ma alla sua religione che non ne ha saputo accompagnare l’evoluzione spirituale ed etica».

Eugenio Scalfari sosteneva: «Questo dialogo (tra credenti e no, n.d.r.) riguarda anche e forse soprattutto i non credenti, la predicazione di Gesù ci riguarda, l’amore per il prossimo ci riguarda, le diseguaglianze intollerabili ci riguardano. Un Papa rivoluzionario ci riguarda e il relativismo di aprirsi al dialogo con le altre culture ci riguarda. Questa è la nostra vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito».

Ben vengano quindi le serie occasioni offerte agli islamici di professare e testimoniare la loro fede. Non vedo cosa ci possa essere di pericoloso. Non si tratta di rinuncia ma di rilancio.

L’ufficio regionale scolastico per la Lombardia ha chiuso, probabilmente definitivamente, il caso della scuola di Pioltello, per la quale il consiglio di istituto, in ragione di una elevata percentuale di stranieri, aveva deliberato la sospensione delle lezioni il prossimo 10 aprile. Non un giorno qualunque ma quello in cui i seguaci dell’Islam celebrano la fine del Ramadan. “Sulla base delle risultanze dell’accertamento ispettivo disposto dall’Usr per la Lombardia, sono state evidenziate talune irregolarità della delibera assunta dal consiglio d’istituto”, si legge nel comunicato diffuso dall’Usr.

Nei giorni scorsi, il preside dell’istituto comprensivo aveva giustificato la delibera del consiglio con una circostanza di fatto, in base alla quale la scuola sarebbe comunque stata quasi vuota in quel giorno. Questo in ragione di una percentuale di studenti di fede musulmana che si aggira attorno al 40%. Ma questa non sembra essere una ragione valida per procedere con la sospensione delle lezioni, pertanto il direttore generale dell’ufficio scolastico regionale ha “invitato il dirigente scolastico, nella sua qualità di garante della legittimità dell’azione amministrativa della scuola, a valutare la disapplicazione della delibera”. Nella nota, quindi, si rimanda alla “possibilità dell’annullamento in autotutela da parte dello stesso Consiglio d’istituto, al fine di assicurare il rispetto delle disposizioni in materia”. (da “Il Giornale.it)

Le disquisizioni di carattere burocratico le lascio volentieri a chi si vuol nascondere dietro il dito della propria penosa presunzione. Così come non ha senso la pretesa di combattere l’integralismo altrui con l’integralismo nostrano. Ci rimettiamo tutti.

Corrado Augias, giornalista e scrittore ammette oggettivamente: «Nei secoli passati è accaduto anche in Europa che frange oltranziste s’impegnassero a sterminare eretici, streghe, posseduti dal demonio, bruciandoli vivi o gettandoli in carcere. C’è voluto molto tempo, grandi mutamenti e una profonda rivoluzione dei costumi perché questo cessasse. Oggi il cristianesimo è tornato a una mitezza di tipo evangelico ed è semmai fatto oggetto, in alcuni Paesi, di sanguinose persecuzioni. Nell’Islam questa evoluzione tarda».

Sarebbe però errato se, dopo avere registrato questo ritardo storico, squalificassimo tutto l’Islam senza appello. La tentazione della ritorsione non porta da nessuna parte, incallisce tutti nei propri errori e impoverisce tutti. Il dialogo richiede coraggio e assunzione di rischio. Anche in questo caso vale il famoso detto “chi non risica non rosica”.

Certo comunque che la lingua batte dove il dente duole, vale a dire sul discorso dei rapporti fra Islam e violenza. Al riguardo rimando al lavoro di ricerca contenuto tra le pubblicazioni consultabili nel sito. Basti il titolo a sintetizzare un discorso di complessità e delicatezza estreme: “Il paradosso: l’amore ci divide…la violenza ci accomuna”. Abbiamo davanti un cammino di speranza carico di incognite e contraddizioni: sarebbe oltre modo sbagliato rinunciare al dialogo per paura di compromettersi in una materia esplosiva. Sul dialogo grava tuttavia un macigno, che non deve renderlo impossibile, ma stimolante e chiarificatore: la compatibilità fra fede e violenza.

Non voglio improvvisarmi in una problematica e forse impossibile analisi comparata fra Vangelo e Corano, ma vedo una grande differenza: mentre chi osserva il Corano rischia di trovare la “giusta causa” alla propria violenza omicida, l’unico rischio che corre il cristiano autentico è l’opposto, vale a dire quello di subire passivamente la violenza altrui. E, se me lo permettete, tra i due rischi preferisco di gran lunga il secondo, con buona pace dei rivoluzionari di tutti i tempi.