L’algoritmo della guerra e l’arbitrio della pace

1° gennaio 2024, giornata mondiale della pace. Ho pensato di cedere la parola a due autorevoli personaggi e di riportare di seguito e a stralcio alcune loro profonde considerazioni, a cui aggiungerò il ritorno alla sconvolgente realtà contro la mistificazione operata dalle narrazioni correnti. Chiedo scusa per la lunghezza, ma penso valga la pena di leggere con calma e attenzione.

 

Sergio Mattarella, presidente della Repubblica: il cuore nelle istituzioni

 

La violenza. Anzitutto, la violenza delle guerre. Di quelle in corso; e di quelle evocate e minacciate. Le devastazioni che vediamo nell’Ucraina, invasa dalla Russia, per sottometterla e annetterla. L’orribile ferocia terroristica del 7 ottobre scorso di Hamas contro centinaia di inermi bambini, donne, uomini, anziani d’Israele. Ignobile oltre ogni termine, nella sua disumanità. La reazione del governo israeliano, con un’azione militare che provoca anche migliaia di vittime civili e costringe, a Gaza, moltitudini di persone ad abbandonare le proprie case, respinti da tutti. La guerra – ogni guerra – genera odio. E l’odio durerà, moltiplicato, per molto tempo, dopo la fine dei conflitti. La guerra è frutto del rifiuto di riconoscersi tra persone e popoli come uguali. Dotati di pari dignità. Per affermare, invece, con il pretesto del proprio interesse nazionale, un principio di diseguaglianza. E si pretende di asservire, di sfruttare. Si cerca di giustificare questi comportamenti perché sempre avvenuti nella storia. Rifiutando il progresso della civiltà umana.

Il rischio, concreto, è di abituarsi a questo orrore. Alle morti di civili, donne, bambini. Come – sempre più spesso – accade nelle guerre. Alla tragica contabilità dei soldati uccisi. Reciprocamente presentata; menandone vanto. Vite spezzate, famiglie distrutte. Una generazione perduta. E tutto questo accade vicino a noi. Nel cuore dell’Europa. Sulle rive del Mediterraneo. Macerie, non solo fisiche. Che pesano sul nostro presente. E graveranno sul futuro delle nuove generazioni. Di fronte alle quali si presentano oggi, e nel loro possibile avvenire, brutalità che pensavamo, ormai, scomparse; oltre che condannate dalla storia. La guerra non nasce da sola. Non basterebbe neppure la spinta di tante armi, che ne sono lo strumento di morte. Così diffuse. Sempre più letali. Fonte di enormi guadagni. Nasce da quel che c’è nell’animo degli uomini. Dalla mentalità che si coltiva. Dagli atteggiamenti di violenza, di sopraffazione, che si manifestano. È indispensabile fare spazio alla cultura della pace. Alla mentalità di pace. Parlare di pace, oggi, non è astratto buonismo. Al contrario, è il più urgente e concreto esercizio di realismo, se si vuole cercare una via d’uscita a una crisi che può essere devastante per il futuro dell’umanità. Sappiamo che, per porre fine alle guerre in corso, non basta invocare la pace. Occorre che venga perseguita dalla volontà dei governi. Anzitutto, di quelli che hanno scatenato i conflitti. Ma impegnarsi per la pace significa considerare queste guerre una eccezione da rimuovere; e non la regola del prossimo futuro.

Volere la pace non è neutralità; o, peggio, indifferenza, rispetto a ciò che accade: sarebbe ingiusto, e anche piuttosto spregevole. Perseguire la pace vuol dire respingere la logica di una competizione permanente tra gli Stati. Che mette a rischio le sorti dei rispettivi popoli. E mina alle basi una società fondata sul rispetto delle persone. Per conseguire la pace non è sufficiente far tacere le armi. Costruirla significa, prima di tutto, educare alla pace. Coltivarne la cultura nel sentimento delle nuove generazioni. Nei gesti della vita di ogni giorno. Nel linguaggio che si adopera. Dipende, anche, da ciascuno di noi.

 

Papa Francesco: il cuore non è un algoritmo

 

In questi giorni, guardando il mondo che ci circonda, non si può sfuggire alle gravi questioni etiche legate al settore degli armamenti. La possibilità di condurre operazioni militari attraverso sistemi di controllo remoto ha portato a una minore percezione della devastazione da essi causata e della responsabilità del loro utilizzo, contribuendo a un approccio ancora più freddo e distaccato all’immensa tragedia della guerra. La ricerca sulle tecnologie emergenti nel settore dei cosiddetti “sistemi d’arma autonomi letali”, incluso l’utilizzo bellico dell’intelligenza artificiale, è un grave motivo di preoccupazione etica. I sistemi d’arma autonomi non potranno mai essere soggetti moralmente responsabili: l’esclusiva capacità umana di giudizio morale e di decisione etica è più di un complesso insieme di algoritmi, e tale capacità non può essere ridotta alla programmazione di una macchina che, per quanto “intelligente”, rimane pur sempre una macchina. Per questo motivo, è imperativo garantire una supervisione umana adeguata, significativa e coerente dei sistemi d’arma. Non possiamo nemmeno ignorare la possibilità che armi sofisticate finiscano nelle mani sbagliate, facilitando, ad esempio, attacchi terroristici o interventi volti a destabilizzare istituzioni di governo legittime. Il mondo, insomma, non ha proprio bisogno che le nuove tecnologie contribuiscano all’iniquo sviluppo del mercato e del commercio delle armi, promuovendo la follia della guerra.

Così facendo, non solo l’intelligenza, ma il cuore stesso dell’uomo, correrà il rischio di diventare sempre più “artificiale”. Le più avanzate applicazioni tecniche non vanno impiegate per agevolare la risoluzione violenta dei conflitti, ma per pavimentare le vie della pace. In un’ottica più positiva, se l’intelligenza artificiale fosse utilizzata per promuovere lo sviluppo umano integrale, potrebbe introdurre importanti innovazioni nell’agricoltura, nell’istruzione e nella cultura, un miglioramento del livello di vita di intere nazioni e popoli, la crescita della fraternità umana e dell’amicizia sociale. In definitiva, il modo in cui la utilizziamo per includere gli ultimi, cioè i fratelli e le sorelle più deboli e bisognosi, è la misura rivelatrice della nostra umanità. Uno sguardo umano e il desiderio di un futuro migliore per il nostro mondo portano alla necessità di un dialogo interdisciplinare finalizzato a uno sviluppo etico degli algoritmi – l’algor-etica –, in cui siano i valori a orientare i percorsi delle nuove tecnologie. Le questioni etiche dovrebbero essere tenute in considerazione fin dall’inizio della ricerca, così come nelle fasi di sperimentazione, progettazione, produzione, distribuzione e commercializzazione. Questo è l’approccio dell’etica della progettazione, in cui le istituzioni educative e i responsabili del processo decisionale hanno un ruolo essenziale da svolgere.

 

Una sorta di raggelante controcanto proveniente da Costituente Terra – Raniero La Valle: la denuncia del freddo cuore della disinformazione

 

Abbiamo vissuto questo doloroso Natale con due catastrofi e una rivelazione. La prima è la catastrofe umanitaria. Secondo le ultime notizie giunte da Gaza, sono stati uccisi finora 21.110 palestinesi  tra cui 8.800 bambini, 6.300 donne, 3111 medici e personale sanitario, 40 addetti alla protezione civile e più di 100 giornalisti; 7.000 persone risultano disperse, 55.243 sono state ferite, 92 scuole e università,  115 moschee e tre chiese sono state distrutte insieme a decine di migliaia di case, 23 ospedali e 53 centri medici non sono più operativi, 102 ambulanze sono state attaccate, l’intera popolazione è  errante. Nemmeno è venuta meno la catastrofe in Ucraina e nel mar Nero.

La seconda catastrofe è quella del potere e dell’informazione in Israele, in Ucraina e in tutto l’Occidente. In Israele ieri il quotidiano Haaretz e il Canale televisivo 12, hanno informato che lo Shin Bet, il servizio segreto israeliano per l’interno, aveva saputo in anticipo che Hamas stava allestendo un attacco “significativo” a Gaza, mentre il famoso e accreditato giornalista americano Seymour Hersh ha scritto di aver appreso da un funzionario israeliano che Netanyahu aveva “visto e letto” le anticipazioni sull’attacco palestinese. Il New York Times da parte sua aveva parlato a fine novembre di questa informazione di cui disponeva Israele. L’ex responsabile italiano del controspionaggio e del contrasto alla criminalità organizzata transnazionale, Marco Mancini (quello dell’incontro con Renzi) aveva a sua volta spiegato a TV 7 che era impossibile che Israele non avesse scorto Hamas preparare un attacco dato che vi stava per impiegare visibilissimi alianti a motore; come poi si è visto sono stati impiegati anche robusti bulldozer per aprire i varchi nella recinzione del confine. A ciò si può accostare  quanto sostenuto da Hamas, che gli attaccanti intendevano prendere ostaggi per riaprire la partita con Israele, e aspettandosi di incontrare una forte resistenza, avevano messo in campo molti uomini, scontando di perderne un gran numero (“martiri”); invece non hanno trovato difese, mentre attraverso i varchi così aperti hanno fatto irruzione molti altri palestinesi che, inferociti per i lunghi tormenti subiti ad opera del nemico, si sono abbandonati alla strage (1417  israeliani uccisi, mai tanti ebrei tutti in una volta dopo la Shoah).

Che Netanyahu avesse adottato la politica di non contrastare Hamas per indebolire l’autorità palestinese a Ramallah e porre fine all’idea di uno Stato palestinese, era cosa risaputa da tempo. Resta da chiarire il motivo per cui Netanyahu, ormai identificato da più lustri con lo Stato di Israele, pur sapendolo non abbia impedito l’azione terroristica a Gaza; e la ragione non può essere se non la “ragion di Stato” di provocare, grazie a quell’azione (non prevista però in quella dimensione dandosi per scontata la debolezza di Hamas) il casus belli che gli permettesse di sferrare l’offensiva finale per chiudere la “questione palestinese”.  Accusato perciò anche in Israele del disastro, Netanyahu ha risposto portando fino alle estreme conseguenze l’eccidio a Gaza (da lui stesso, accusato da Erdogan, paragonato al genocidio turco dei Curdi), e respingendo, perfino con Biden, ogni esortazione a interromperlo. A questo punto si è aggiunta la catastrofe della politica degli Stati Uniti, che dopo l’appello a Israele di non ripetere “l’errore” americano fatto dopo l’11 settembre, hanno votato contro la tregua all’ONU, mentre Biden, dopo una lunga infruttuosa telefonata con Netanyahu, ha penosamente dichiarato trattarsi di una “conversazione privata” e di non avere chiesto al premier israeliano il “cessate il fuoco”.

A questa catastrofe politica si aggiunge quella dell’Ucraina, a cui si è fatto credere di poter sconfiggere la Russia riconquistando la Crimea ed entrando nella NATO, e si trova ora con un popolo mandato al sacrificio, senza i dollari americani e le armi che deve perciò implorare dall’Europa, impeditane dal veto di Orban. 

 L’Occidente, dal canto suo, grazie anche al suo sistema mediatico, che ha un po’ mistificato e un po’ taciuto tutto questo, ha perduto così ogni fondamento nel vantare la superiorità dei propri valori e la sua pretesa di dominio sulle autocrazie e sul “resto del mondo”.

Queste le catastrofi. La rivelazione che ne è venuta è questa: che la guerra non è solo “una follia senza scuse”, come ha detto papa Francesco nel suo messaggio di Natale. È anche e soprattutto un suicidio per chi la intraprende, prima ancora che sconfigga il nemico o lo voti al genocidio; ciò è avvenuto con la Germania nazista, avviene con i sogni di gloria degli Stati Uniti e della loro NATO, avviene con Israele, avviene con l’Ucraina. Contro i fautori di guerra e chi fabbrica e li rifornisce di armi, dovrebbe essere questo l’argomento decisivo. Purtroppo però esso può funzionare con i popoli, non funziona con gli Stati e i loro apparati di governo. Finché noi glielo permettiamo.