I pesci nel pantano

Raccontata dai media fa (quasi) sorridere, vista in televisione fa venire i brividi, (non) commentata da Fratelli d’Italia fa ribrezzo.

Mi riferisco all’adunata fascista del 07 gennaio scorso in ricordo della Strage di Acca Larenzia: il pluriomicidio a sfondo politico avvenuto a Roma il 7 gennaio 1978, ad opera di un gruppo armato afferente alla sinistra, nel quale furono uccisi due giovani attivisti di destra appartenenti al Fronte della Gioventù, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, assassinati davanti alla sede del Movimento Sociale Italiano in via Acca Larenzia, nel quartiere Tuscolano. A tali fatti è strettamente legata la morte di un terzo attivista della destra sociale, Stefano Recchioni, ucciso qualche ora dopo negli scontri con le forze dell’ordine avvenuti durante una manifestazione di protesta organizzata sul luogo stesso dell’agguato. L’agguato, rivendicato dai Nuclei armati per il contropotere territoriale, contribuì a una degenerazione della violenza politica e dell’odio ideologico tra le opposte fazioni estremiste negli anni di piombo, oltre che al mantenimento di uno stato di tensione caratteristico della prima repubblica. (da Wikipedia)

Non si discute il diritto di commemorare le vittime di questo fatto di violenza politica. Si discute il modo, vale a dire una vera e propria apologia del partito fascista, peraltro espressamente vietata dalla legge. La polizia, come al solito, non è intervenuta, la magistratura forse interverrà. Non è questo però l’aspetto principale dell’inaccettabile evento politico. Stupisce il clima di omertosa indifferenza antistorica entro cui si stanno ringalluzzendo le manifestazioni di estremismo neofascista.

Quando a scuola arriva un insegnante supplente, che dimostra di non avere padronanza della materia, capacità di guidare la classe e volontà di affrontare la situazione, gli alunni si scatenano, fiutano l’aria permissiva e si lasciano andare alla più sfrenata indisciplina. Sta succedendo così con la supplente Giorgia Meloni al governo del Paese, di cui non può incarnare lo spirito antifascista, resistenziale e costituzionale, perché ha studiato e vissuto un’altra materia, quella del neofascismo o del postfascismo di Giorgio Almirante e c.

I nostalgici lo hanno capito e si comportano di conseguenza, si sentono in libera uscita e sfogano i loro istinti antistorici con rinvigorita sfacciataggine, sicuri di una sorta di impunità etico-culturale, di tacita simpatia politica e di silenzio giudiziario.

È perfettamente inutile chiedere a Giorgia Meloni di condannare queste manifestazioni neofasciste: la botte dà il vino che ha e nella botte meloniana non c’è vino antifascista. Il suo alleato forzista fa i salti mortali per distinguersi, ma lo fa con tale imbarazzo e goffaggine da rendere ancora più viziata l’aria democratica. Matteo Salvini ha ben altro da farsi perdonare e quindi lascia fare.

L’opposizione di sinistra dovrebbe impegnarsi a dimostrare che il neofascismo è nel DNA meloniano, non tanto partendo dalle vergognose pagliacciate di cui sopra, ma dai contenuti di un’azione di governo, che rispecchiano fedelmente l’eredità accettata senza beneficio d’inventario e trasfusa, furbescamente ma scopertamente, nella strategia e nelle tattiche adottate in senso corporativo, populista e sovranista.

L’argomento snobistico dell’antifascismo che non tira voti può avere un fondo di verità, se l’antifascismo rimane un puro marchio elettorale. Se invece diventa la cartina di tornasole per distinguere nei fatti la politica di destra da quella di sinistra, è tutto da recuperare a livello di metodo e di metro di giudizio.

In conclusione, le manifestazioni di stampo fascista, che stanno prendendo ancor più piede rispetto al passato, sono, senza alcun dubbio, gravi per loro stesse, ma soprattutto sono sintomo di un malessere storico che ci sta avvolgendo: l’acqua del pantano politico non è inquinata dai pesci che vi nuotano, ma dagli acquacoltori che li curano, li mantengono in salute e li alimentano.