Il silenzioso rispetto per la persona umana

Quanto avvenuto a Trieste “è una sconfitta per la medicina e per l’intera società trattare un paziente somministrando la morte, piuttosto che farsene carico con le cure palliative”, ha detto Massimo Gandolfini, medico e presidente dell’Associazione Family Day. “Il Ssn è nato per curare e non per uccidere – sottolinea il neurochirurgo e psichiatra -. La richiesta di morire è sempre un messaggio di disperazione che deve essere colto per dare una risposta, scientifica e umana, di presa in carico. Rispondere con il suicidio assistito è disumano e vergognoso. Faremo ogni sforzo per sostenere le cure palliative e cancellare la deriva della morte su commissione”. (dal quotidiano “Avvenire”)

Vorrei che Massimo Gandolfini si scandalizzasse per i subdoli omicidi che il Ssn compie con le disumane e vergognose code nei pronto soccorso, per gli inammissibili e vergognosi ritardi nelle prestazioni sanitarie, per le clamorose insufficienze e disorganizzazioni, per le ricorrenti e inspiegabili omissioni, per tutte le angoscianti inefficienze di un sistema sanitario che sta cadendo a pezzi.

Smettiamola di nasconderci dietro stucchevoli questioni etiche, andiamo al sodo. Non mi spaventa il suicidio assistito: è un modo dignitoso (non l’unico, lo può essere in certi conclamati e disperati casi) per rispondere al dramma della sofferenza giunta ai limiti della sopportabilità.  Mi fanno paura la diagnosi e la degenza non assistite riservate a chi vorrebbe vivere. Non ho niente da obiettare verso persone giunte alla disperazione (il suicidio è sempre e comunque un atto disperato), che chiedono un aiuto per porre fine alle loro tragiche esistenze.  Ho molto da ridire invece su come è strutturato, organizzato ed erogato il servizio sanitario pubblico.

Il discorso delle cure palliative rischia di essere un comodo alibi. Se una persona chiede di porre fine ai propri giorni dopo lunghe ed estenuanti sofferenze fisiche e psicologiche, non le si può proporre una cura palliativa: sarebbe come offrire una caramella a chi sta morendo di fame. Cerchiamo di essere seri. Non penso che il ricorso al suicidio assistito sia una scelta di comodo, né per l’interessato, né per chi gli sta intorno, né per il Ssn. È solo una risposta (non l’unica, ma comunque plausibile) al problema della vita disperata giunta ai confini con la morte rassegnata.

Il vescovo di Trieste conclude incoraggiando tutti a una carezza nei confronti di chi sta male, di chi soffre una particolare situazione di vulnerabilità. «E in particolare di quel malato che è tentato dalla disperazione. Incoraggio tutti a un tempo intenso di condivisione con chi vive la malattia per rigenerarci insieme ad una speranza di vita vera e piena, dove non ci sono più morte, malattia e violenza». (dal quotidiano “Avvenire”)

Si tratta di un bel passo avanti rispetto al cinico dogmatismo accumulato dalla Chiesa nei secoli. Preferisco tuttavia andare oltre la paternalistica e religiosa mozione degli affetti e rifarmi a quanto scrive il monaco, teologo e biblista Enzo Bianchi nel suo più recente libro “Cosa c’è di là” nel capitolo “Desiderare la morte?”: «Io resto convinto che il suicidio è un atto su cui solo Dio può dare un giudizio. La casistica della morale si permette di stigmatizzarlo come “diserzione triplice, individuale, sociale e religiosa” per farne addirittura “un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio”, ma resto convinto invece che su questo atto noi possiamo anzi dobbiamo fare silenzio, inchinarci di fronte a questo enigma e a chi ha scelto di terminare così la propria vita, e sentirci in grande comunione, anche con chi – in stato di sofferenza – non arriva al suicidio, ma ha pensato al suicidio, o per lo meno ha compiuto azioni a esso riconducibili».

Termino citando per l’ennesima volta quanto afferma don Andrea Gallo sui malati terminali: «Sulla base di una scelta chiara e consapevole della persona interessata, bisogna rispettare il suo diritto alla non sofferenza, a un minimo di dignità in ciò che rimane della vita. Ogni caso ha una sua trama e una valutazione diversa».

Probabilmente alcuni, fra i pochi che hanno la bontà di leggermi, si stupirà che un cattolico credente e praticante come il sottoscritto sia così possibilista in merito al rispetto della vita. Rispondo con tanta umiltà, in base alla mia scarsa fede e all’ancor più scarsa coerenza di pensiero e di vita, che, all’astratto e irrinunciabile principio dell’intoccabilità della vita, preferisco il concreto e coniugabile principio del rispetto della persona umana.