Il piscio registico inquina il canto lirico

Venne il giorno in cui cominciai a frequentare con una certa regolarità il teatro Regio. Fu il giorno del mio compleanno, un primo gennaio, del 1958 credo di ricordare: si rappresentava Turandot in una matinée (spettacolo pomeridiano). Mio padre rientrò per il pranzo di capodanno e prima di cominciare a mangiare si rivolse a me, quasi con noncuranza e molta naturalezza, chiedendomi di sorpresa: “Putén, incó vénot a teator?”  Rimasi di sale e si può facilmente immaginare la gioia che provai e l’entusiasmo con cui aderii alla proposta: si trattava del più bel regalo di compleanno che potessi desiderare, forse sentivo che per me stava per iniziare un’epoca, era il battesimo della passione musicale ed anche l’inizio delle “prediche” di mio padre dal pulpito teatrale. Ricordo quello spettacolo, il primo nell’età della ragione, molto distintamente, perché lo memorizzai al punto da ripeterne, goffamente, alcune scene nei giorni successivi. Avevo rotto il ghiaccio, ero diventato anch’io un abitante del Regio, avevo sviluppato finalmente “la malattia” che non mi avrebbe più lascito per tutta la vita e che avevo ereditato da mio padre.

Cosa sarebbe successo se nel 1958 al teatro Regio di Parma avessero rappresentato una Turandot come quella che ho visto in televisione per l’inaugurazione del teatro San Carlo di Napoli? Probabilmente ne sarei rimasto scioccato e complessato così come la principessa della fiaba musicata da Puccini è condizionata ed ossessionata dall’idea del sesso associato alla violenza. Non so se ne sarei uscito vivo, riscattato magari soltanto da qualche Liù e da qualche Calaf tornati nel seminato pucciniano.

Qualcuno sostiene che i provocatori ammodernamenti delle messe in scena operistiche servano per attirare i giovani. Forse servono ad allontanarli irrimediabilmente. Nel caso della Turandot di Napoli il regista, peraltro contestato dal pubblico, è riuscito a creare un vomitevole polpettone pseudo-culturale, cercando una impossibile combinazione tra fiaba e realtà, tra Pechino e Napoli, tra incidenti stradali e supplizi riparatori, tra amore sublimato e sesso riabilitato.

Un direttore d’orchestra dovrebbe innanzitutto essere un sacerdote difensore dell’opera e non un opportunistico osservatore dell’opera violentata dal regista. Invece si crea una snobistica corsa alla novità fine a se stessa, che conduce il teatro alla deriva artistica. Un sovrintendente dovrebbe varare e divulgare operazioni culturali e non sperperare denaro pubblico alla ricerca di un ridicolo modernismo.

Le baggianate scenografiche e registiche non hanno limiti. Anche la provocazione può avere un senso se non è commerciale e consumistico snaturamento del messaggio di fondo. La novità dovrebbe costringere lo spettatore ad approfondire il significato dell’opera, non proporgliene la ridicolizzazione e lo stravolgimento.

Tanto tempo fa, in clima di piena contestazione giovanile, alla vigilia della visita pastorale del vescovo nella mia parrocchia, un gruppetto di “scapestrati” e fantasiosi adolescenti si pose il problema di trovare un eloquente gesto per attirare l’attenzione della comunità e rompere il clima di ovattata accoglienza. Dopo una lunga discussione intervenne il parroco, assai preoccupato per i clamorosi effetti di un gesto avventato e scomposto. Fulminò tutti con una battutaccia: “Quand rivä al vèscov,  fi ‘na béla pisäda davanti a la céza…”.

Ho cominciato con mio padre in vena di regali operistici e chiudo con mio padre in vena di insegnamenti culturali. Non concepiva e non accettava le scenografie e le regie d’avanguardia, le messe in scena antitradizionali ecc. ecc… Era drasticamente contrario a queste innovazioni, era un autentico “matusa” in questo campo, anche se ammetto non avesse tutti i torti. Cito un episodio significativo in tal senso.

Nell’ultimo atto dell’opera Falstaff, la vicenda si svolge in una foresta e Sir John dice espressamente “ecco la quercia” per identificare il luogo dell’appuntamento. “Mo indò éla?” gridò mio padre dal loggione, dal momento che la scena non aveva neanche l’odore della quercia. Maleducato? Sì! Aveva ragione? Almeno un po’, sì! Il discorso sarebbe molto lungo e complesso, valga comunque l’episodio ad evidenziare un messaggio che papà mi lanciava: stai sempre attento ai mistificatori della realtà, a chi te la vuole raccontare e chi più ne ha più ne metta.

L’Unesco ha promosso la pratica del canto lirico italiano a elemento del patrimonio immateriale dell’umanità, salvo errori e manomissioni di chi non canta, ma stona anche senza cantare.

Il Teatro di San Carlo ha inaugurato la sua stagione con un trionfo di voci e una regia che ha suscitato dissenso, presentando la celebre opera “Turandot” in una nuova produzione firmata dal regista russo Vasily Barkhatov, esordiente in Italia. Non oso nemmeno ipotizzare cosa direbbe mio padre di questa messa in scena. Forse si rifugerebbe in un laconico e disarmante commento: “Za i teator j én mez vôd, se j a vólon vudär dal tutt, chi fagon pur!”.