In una lettera inviata alle «eccellenze reverendissime» della Conferenza Episcopale Italiana si cela il grido d’allarme dei vescovi per l’Imu. A firmare la comunicazione inviata il 25 ottobre e di cui parla oggi La Stampa è il segretario generale della Cei Giuseppe Baturi. E la preoccupazione per quanto sta accadendo sembra palpabile: «Molti enti ecclesiastici stanno ricevendo in questi giorni la notifica del provvedimento della Commissione europea, adottato lo scorso 3 marzo, relativo al recupero degli aiuti di Stato concessi sotto forma di esenzione dall’Imposta comunale degli Immobili (Ici) tra il 2006 e il 2011. La Segreteria generale sta monitorando la questione e fornirà indicazioni nei prossimi giorni».
Per capire il motivo dell’allarme tra i vescovi bisogna proprio tornare al 3 marzo scorso. Ovvero il giorno della Decisione dell’Unione Europea che ordina all’Italia di recuperare la tassa non pagata per cinque anni. Con gli interessi. L’Italia si è anche impegnata alla riscossione entro 4 mesi dalla notifica. Mentre le stime delle somme non raccolte vanno dai 3,5 agli 11 miliardi di euro.
Nel 2012 l’Ue, pur riconoscendo l’illegalità di quell’esenzione, rinunciò al recupero, in quanto le banche dati fiscali e catastali non consentivano di rintracciare chi non aveva pagato. Nel 2018 la Corte di Giustizia Europea ha annullato la decisione. La nuova pronuncia della Commissione dovrebbe in teoria chiudere i conti. Sta ora al governo italiano decidere cosa fare. Palazzo Chigi aveva fatto sapere di voler aprire una trattativa con l’Europa per chiarire i calcoli delle cifre. La Cei attende. E spera nella sponda del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e su una maggioranza che salvò la Chiesa già ai tempi di Silvio Berlusconi. Monsignor Baturi nella lettera ricorda che vanno recuperate solo le cifre il cui ammontare supera la soglia dei 200 mila euro in un triennio nelle strutture che ospitavano (o ospitano ancora) attività commerciali. Ma le notifiche sono arrivate. E le diocesi sono in allarme. (da Open-online)
Mio padre, da grande saggio qual era, sosteneva che per giudicare e fare i raggi etici a una persona bisognava guardarne e toccarne il portafoglio. Anche all’interno della Chiesa e del suo clero la cartina di tornasole può essere ricondotta a questo criterio. Papa Francesco lo ha detto a chiare lettere ai vescovi italiani: «Per quanto riguarda la gestione delle strutture e dei beni economici, in una visione evangelica, evitate di appesantirvi in una pastorale di conservazione, che ostacola l’apertura alla perenne novità dello Spirito. Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio».
Si leggono ricostruzioni faraoniche del patrimonio della Chiesa istituzione: tutto compreso arriveremmo a 2 mila miliardi, un milione di immobili sparsi in tutto il mondo, 115 mila soltanto in Italia, con appartamenti di lusso spesso affittati a prezzi di favore (non certo ai poveracci di turno). Sono cifre da capogiro: indubbiamente vanno interpretate alla luce delle complesse esigenze ecclesiali, ma lasciano molti dubbi e molto amaro in bocca. Come lascia più di un dubbio l’istituto dell’otto per mille ed il suo utilizzo.
Non entro giuridicamente nel merito dell’esenzione a suo tempo concessa in materia di Ici alla Chiesa cattolica: mi ha sempre dato l’impressione di una marchetta berlusconiana. Ora anziché cambiare finalmente registro, anziché rassegnarsi a dare a Cesare quel che la Commissione europea dice essere di Cesare, anziché contribuire al risanamento dei conti pubblici con una sorta di ravvedimento operoso, ho la netta sensazione che si stia brigando alla ricerca di un nuovo marchettaro o, se volete, alla ricerca di un compromesso non certo di stampo evangelico.
L’importante è non mollare sui principi etici irrinunciabili: la giustizia fiscale non rientra in questo capitolo, quindi…