La diversa coniugazione dei verbi migratori

“Come il buon samaritano, siamo chiamati a farci prossimi di tutti i viandanti di oggi, per salvare le loro vite, curare le loro ferite, lenire il loro dolore”. É l’invito del Papa da piazza San Pietro, durante il momento di preghiera per i migranti e i rifugiati, con i partecipanti al Sinodo in corso in Aula Paolo VI fino al 29 ottobre. “Per molti, purtroppo, è troppo tardi e non ci resta che piangere sulle loro tombe, se ne hanno una, o il Mediterraneo ha finito di essere una tomba”, il grido d’allarme di Francesco: “Ma il Signore conosce il volto di ciascuno, e non lo dimentica. Il buon samaritano non si limita a soccorrere il povero viandante sulla strada. Lo carica sul suo giumento, lo porta a una locanda e si prende cura di lui”. “Qui possiamo trovare il senso dei quattro verbi che riassumono la nostra azione con i migranti: accogliere, proteggere, promuovere e integrare”, ha spiegato il Papa: “I migranti vanno accolti, protetti, promossi e integrati. Si tratta di una responsabilità a lungo termine, infatti il buon samaritano si impegna sia all’andata sia al ritorno. Per questo è importante prepararci adeguatamente alle sfide delle migrazioni odierne, comprendendone sì le criticità, ma anche le opportunità che esse offrono, in vista della crescita di società più inclusive, più belle, più pacifiche”. (agenzia d’informazione “Sir”)

Batte Franceso, risponde Giorgia.

“Con gli sbarchi in calo per via dell’autunno, Giorgia Meloni riprende in mano il “dossier immigrazione” e sfodera una soluzione già proiettata alla prossima stagione 2024. Per farlo si affida a un rapporto ormai più che consolidato in Europa, quello con Edi Rama, il primo ministro di Albania che lo scorso agosto l’ha anche ospitata per qualche giorno di ferie. Con Rama, giunto ieri a sorpresa nella capitale, la presidente del Consiglio ha siglato un’intesa che ufficializza una sorta di nuova categoria di naufraghi, quelli “da esportazione”. È la «dottrina Meloni», come l’hanno già ribattezzata i suoi, una nuova tessera di una strategia che si prefigge di dissuadere le partenze: il protocollo prevede – tra le altre cose – la realizzazione entro la primavera prossima di due centri per il rimpatrio che potranno ospitare fino a massimo 3mila persone cosiddette “irregolari” per l’Italia, con un flusso annuale quantificato «in 36-39mila persone», così da decongestionare le presenze sul suolo italiano. Il testo non si applica agli immigrati che giungono sulle coste e sul territorio italiani, ma a quelli salvati nel Mediterraneo da navi italiane, come quelle di Marina e Finanza e non quelle delle Ong. Inoltre non varrà per minori, donne in gravidanza e soggetti vulnerabili”. (dal quotidiano “Avvenire” – Eugenio Fatigante)

La scansione francescana dei verbi per l’azione con i migranti cambia e di molto: non più “accogliere, proteggere, promuovere e integrare”, ma salvare (mancherebbe altro), rimpatriare (tornatevene a casa vostra), esportare (verso centri per il rimpatrio collocati in Albania e altri territori), decongestionare (alleggerire la presenza sul suolo italiano).

Forse si tratta di una edizione riveduta e (s)corretta in chiave anti-migratoria del “Dio, patria e famiglia” di mussoliniana memoria. Un Dio a prescindere dalla parabola evangelica del buon samaritano, una patria che esporta la merce avariata dei migranti irregolari, una famiglia che si chiude in difesa di se stessa.

La filosofia meloniana assomiglia molto a quella di un mio zio, che viveva e lavorava a Genova: quando tornava a Parma e incontrava gli amici di un tempo ricreava immediatamente il rapporto cameratesco condito dai ricordi. Al termine di questi fitti dialoghi sparava quasi sempre una simpatica battuta. Al momento dei saluti rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vól gnir a catär…sta a ca tòvva».

La strategia zigzagante di Giorgia Meloni in materia migratoria si basa su una contraddizione di fondo. Da una parte la lamentazione continua (è il suo leit motiv difensivo) verso il menefreghismo europeo, dall’altra un “faso tuto mi” che non fa altro che spingere i partner europei al “va’ avanti ti c’am scapa da rìddor”.

Il discorso migratorio si inquadra nell’equivoco della politica estera del governo di destra italiano: europeismo a corrente alternata e alterata da sovranismi vari ed estremismi eventuali. Le non scelte si sprecano e consentono di navigare a vista tra i marosi salviniani e le bonacce (?) post-berlusconiane: gli irregolari vanno mandati a casa, ma solo un pochettino, usando cioè gli escamotage internazionali (vedi Tunisia, discorso fallito in partenza e Albania, staremo a vedere). Cosa potrà succedere in questi centri per il rimpatrio lo posso solo immaginare: dei veri e propri lager definitivi. L’esperienza libica, peraltro ascrivibile al partito democratico ed al suo allora ministro Marco Minniti, insegna.

Matteo Renzi, quando era al governo aveva stipulato un patto tacito con la strapotente Angela Merkel: l’Europa chiudeva un occhio sulle trasgressioni finanziarie italiane e l’Italia per contraccambiare il favore accettava obtorto collo il menefreghismo europeo verso l’emergenza migranti che si scatenava sulle coste italiane. Fantapolitica? Può darsi. La storia si ripete e Giorgia Meloni riesce a farsi sopportare (non l’avrei mai detto) da Germania e Francia, con l’aiuto della ridanciana Ursula von Der Leyen, nella sua equivoca opzione sovranista, lamentandosi più in teoria che in pratica dell’inerzia migratoria della Ue in buona parte provocata anche dai suoi interlocutori privilegiati (i Paesi degli accordi di Visegrad).

E questa signora sarebbe una statista? Una governante per il lungo periodo, che si candida, costituzione nuova alla mano, ad essere una premier forte e intoccabile? I migranti con simili interlocutori sono destinati ad affogare nel mare o nei lager o nello sfruttamento. Gli italiani, salvo ripensamenti di pancia e/o riposizionamenti di testa, sono destinati ad uscire dal consesso dei Paesi democratici per collocarsi in una sorta di periferia dove si vive di espedienti sociali e di arrangiamenti economici.