Non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere e non per morire

Quando succedono dei terribili fatti che comportano lutti e rovine emergono due reazioni stereotipate: una di stampo illuministico volta alla ricerca del colpevole a tutti i costi; l’altra di tipo fatalista, di rassegnata passività agli eventi del tutto estranei alla volontà e all’impegno dell’uomo.

Gli operai travolti dal treno a Brandizzo rientrano in questa macabra dissertazione filosofica? Da una parte abbiamo una sorta di accanimento indagatorio sulle eventuali responsabilità dell’accaduto e conseguente sbrigativa criminalizzazione di chi non ha controllato o sorvegliato a dovere: è l’atteggiamento dei media tra grilloparlantismo e scandalismo; dall’altra c’è la tentazione di considerare come i morti sul lavoro ci saranno sempre, anche con tutte le precauzioni, perché lavorare è pericoloso e non dobbiamo mai dimenticarlo: sono le incaute parole del parroco che ha celebrato i funerali, pronunciate in buona fede e addirittura ribadite alla fine del rito: «Morire sul lavoro è un dato di fatto. Si muore. Le attività umane sono rischiose».

Il presidente della Repubblica, parlando della morte dei cinque operai a Brandizzo travolti da un treno, ritiene che morire sul lavoro sia un oltraggio ai valori della convivenza.  “Lavorare non è morire. Le vittime ci dimostrano che non stiamo facendo abbastanza”, scrive Sergio Mattarella in una lettera-appello indirizzata alla ministra del Lavoro. Pur avendo consapevolezza dei limiti dell’uomo, che non può prevedere, controllare ed evitare tutto, occorrerebbe un supplemento di impegno a tutti i livelli.

Le istituzioni balbettano squadernando la legislazione esistente, che sulla carta cerca effettivamente di rendere più sicuro il lavoro, ma concretamente non riesce a garantire una messa in sicurezza delle procedure lavorative. I partiti politici parlano molto ad operaio morto, ma non hanno la sensibilità necessaria per affrontare la problematica con coraggio e priorità. I sindacati dei lavoratori reagiscono duramente, ma tendono a privilegiare gli aspetti economici a scapito di quelli della sicurezza. La macchina dei controlli mi sembra imprigionata nella burocrazia e poco efficace nella realtà. Le responsabilità nei singoli casi devono essere indagate dalla magistratura possibilmente senza sbattere eventuali mostri in prima pagina.

E la società come reagisce? L’opinione pubblica auspica più vendetta che giustizia, più capri espiatori a valle che ricerca della sicurezza a monte, in una sorta di rimozione collettiva, di trasferimento del problema dalla coscienza alla politica.

Sul piano religioso, che ormai si ha persino paura di prendere in considerazione, sono d’accordo col teologo Alberto Maggi, teologo e biblista, il quale afferma: «Ci si dimentica che il messaggio di Gesù vuole che gli uomini siano felici qui, su questa terra. Non è che la gente deve soffrire per cercare Dio: è Dio che la cerca per farla felice. Gesù ci assicura che si può essere pienamente felici qui, su questa terra». Una certa esegesi biblica considera il lavoro come un castigo, mentre è la partecipazione dell’uomo all’attività creativa di Dio, un mettere a frutto i talenti, un impegno a servizio del prossimo. Così come la povertà evangelica consiste anche nel combattere l’ingiustizia e le diseguaglianze, il lavoro dovrebbe consistere in un servizio alla vita per chi lo esegue e per chi ne gode i frutti.

Sempre Alberto Maggi dice in un passaggio del suo libro intervista: “Ma che cos’è il caso? Tutti conoscono il celebre aforisma coniato da Anatole France, lo scrittore francese premio Nobel della letteratura: «Il caso è lo pseudonimo di Dio quando non vuole firmare». Credo che il caso sia il contrario di un termine affine, caos, e potrei filosofeggiare dicendo che è il caso a mettere ordine nel caos… se solo avessimo occhi per vedere il disegno di Dio nella nostra esistenza! Di norma lo vediamo a posteriori: col trascorrere dei giorni e degli anni dobbiamo ammettere che sì, c’era, e c’è qualcosa, o Qualcuno, che continuamente tesse la trama d’amore nella nostra esistenza e che riesce a fare dei nostri errori il trampolino di lancio per proiettarci verso meraviglie ancore più grandi”.

Altro che rassegnazione e fatalismo! Siamo protagonisti di un progetto meraviglioso dove non ci può e non ci deve essere morte e lutto per disimpegno o pigrizia. E il lavoro è proprio la nostra partecipazione a questo progetto, non per morire ma per vivere.