Pregi e difetti di un comunista evoluto

Non ho la tendenza ad unirmi ai cori, a costo di isolarmi in stonature e in stecche vocali. Sono abituato a ragionare e giudicare con la mia testa e così faccio anche con Giorgio Napolitano scomparso in questi giorni.

Dopo averne riconosciuto i grandi meriti, voglio analizzare criticamente la sua mission da tre punti di vista: come uomo di partito, vale a dire come comunista; come servitore dello Stato e delle Istituzioni; come uomo politico tout court.

Parto dai ricordi più strettamente politici. Nella mia vita ho cercato di esprimere l’anelito alla vera politica, aderendo all’azione della sinistra cattolica all’interno della D. C., in un impegno nel territorio, nelle sezioni di partito, nel consiglio di quartiere, laddove il dialogo col PCI si faceva sui bisogni della gente, delle persone, laddove si condividevano modeste ma significative responsabilità di governo locale, laddove la discussione, partendo dalle grandi idealità, si calava a contatto con il popolo. Quante serate impiegate a redigere documenti comuni sulle problematiche vive (l’emarginazione, la scuola elementare, l’inquinamento, la viabilità), in un clima costruttivo (ci si credeva veramente), in un rapporto di reciproca fiducia (ci si guardava in faccia prescindendo dalle tessere di partito).

Ho avuto l’onore di essere allora presidente del quartiere Molinetto (io democristiano sostenuto anche dai comunisti) in un’esperienza positiva, indimenticabile, autenticamente democratica. Ricordo con grande commozione il carissimo amico Walter Torelli, scomparso da diversi anni, comunista convinto, col quale collaborai in un rapporto esemplare, sfociato in un’amicizia, che partiva dall’istituzione (quartiere) per proseguire nel dibattito fra i partiti, per arrivare alla condivisione culturale ed ideale di obiettivi al servizio della gente.

Mi sento in dovere di ripensare con gratitudine a quando Torelli, a nome del Pci, mi dichiarò la sua totale disponibilità ad appoggiare la mia candidatura a presidente di quartiere: la cosa mi riempì di orgoglio e soddisfazione. Riuscimmo infatti a collaborare in modo molto costruttivo.

Un altro comunista mio amico fu Mario Tommasini, fuori dal coro, che seppe reagire alla burocrazia del Pci buttandosi a capofitto nel sociale, trovando e coltivando in esso gli autentici valori popolari della sinistra. Nessuno dei due amici che sto citando era schierato con Giorgio Napolitano e quindi mi lascio condizionare volentieri dai loro metri di giudizio.

Tutta la mia militanza politica e partitica è stata caratterizzata da una convinta e costante ricerca del dialogo coi comunisti, a volte tutt’altro che facile, a volte aspro e serrato, ma sempre rivolto al servizio della popolazione in nome dei valori condivisi.

Non posso che esprimere grande ammirazione verso Giorgio Napolitano come comunista, anche se in lui prevaleva una visione elitaria e grilloparlantesca, lontana da quel pathos popolare che condividevo coi comunisti di cui sopra: paradossalmente mi piacevano di più gli errori storici, anche imperdonabili, dei comunisti duri e puri rispetto alle conversioni asettiche e tardive dell’evoluzione socialdemocratica dei miglioristi piuttosto salottieri ed opportunisti. Nei secondi non c’era il coraggio di uscire allo scoperto né il carisma per trascinare tutto il partito sulla via della democratizzazione totale: non erano né carne né pesce, facevano le loro battaglie nel chiuso delle stanze di partito o nelle colonne dei giornali chic. Il popolo era lontano dalle loro disquisizioni: avevano ragione da soli, ma a volte è meglio sbagliare insieme. Il discorso della scelta socialdemocratica, cavalcata silenziosamente da Napolitano e dal gruppo che lo comprendeva, era e resta una questione complessa e irrisolta, certamente non si poteva diventare socialdemocratici strizzando l’occhio a Bettino Craxi e al suo partito da bere. Anche il suo tardo-europeismo così come il suo tardo-americanismo non ebbero grande rilievo: non fecero scalpore e non diedero fastidio. A Kissinger non dava preoccupazione Napolitano, lo preoccupava molto di più Aldo Moro.

Da comunista sdoganato seppe servire le Istituzioni con grande rigore ed autorevolezza. Il suo senso dello Stato era fin troppo forte al punto da limitare attenzione e partecipazione alla società civile ed ai suoi fermenti. Il suo rigoroso rispetto per le Istituzioni rischiava cioè di scantonare talora in una visione burocratica: pernicioso difetto dei comunisti e dei post-comunisti, che personalmente riuscivo un tempo a dribblare a livello di base e che oggi mi tiene lontano dal Pd (Elly Schlein tenta di sostituire la burocrazia post-comunista con l’enfatizzazione dei diritti civili, ma non basta).

Napolitano, come Presidente della Repubblica, ebbe indubbiamente il coraggio di prescindere dai meri equilibri partitici per puntare alla politica con la “P” maiuscola. In questo senso vanno inquadrati il suo interventismo ed il suo internazionalismo che lo portarono a dare una “spallata” decisiva al berlusconismo, che ci stava portando alla rovina. Seppe bacchettare i partiti e la politica che con essi stava degenerando.

Da uomo politico non aggiunse niente di particolare al gioco democratico se non contribuire alla piena democratizzazione del Pci, che peraltro era comunque avviata più per merito di Berlinguer e lungimiranza di Moro che per le intuizioni di Napolitano. Gli mancavano quel respiro popolare e quella sensibilità sociale che fanno della politica una strada aperta in mezzo ai problemi della povera gente. Quel patrimonio che la sinistra italiana, e non solo italiana, ha perduto e non riesce a ricuperare. Forse sui sacrosanti altari dell’europeismo, dell’occidentalismo, dell’esame di governismo ha sì ottenuto di occupare da par suo spazi istituzionali rilevantissimi, ma ha sacrificato un po’ troppa verve popolare, contribuendo suo malgrado ad aprire praterie ai populismi in cui siamo impantanati. Per non essere demagogica la sinistra rischia di diventare abulica.

Giorgio Napolitano, non da oggi, lascia comunque un vuoto enorme a livello di classe dirigente della politica: di una certa pasta c’è rimasto soltanto Sergio Mattarella, il resto sono bei ricordi. Difficile vedere concretamente cosa possa comportare l’eredità di Napolitano per la disarmante e sconfortante politica odierna, si fa molta fatica a tradurla in piste alternative da percorrere. Per fortuna c’è la pista mattarelliana tuttora agibile, forse solo un sentiero, fino a quando non è dato sapere…