Il negozio santanchiano chiuso per inventario

“Santadeché” scriveva Dagospia, ironizzando non poco sul comportamento etico-politico di Daniele Santanchè. Il suo groviglio di interessi imprenditoriali le avrebbe dovuto consigliare di non assumere una carica pubblica rilevante come quella di ministro. Ormai però, da Berlusconi in avanti, il conflitto di interessi è talmente inflazionato da essere considerato una pagliuzza nell’occhio dell’avversario politico.

E allora ripieghiamo (si fa per dire) sulla Costituzione e sul suo articolo 54 che recita: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. La Costituzione non poteva dire di più, non era possibile fissare dei parametri o dei coefficienti applicativi. Resta comunque questo imprescindibile e secco richiamo costituzionale all’onore.

Il vocabolario così lo definisce: “In senso ampio, la dignità personale in quanto si riflette nella considerazione altrui (con significato che coincide con quello di reputazione) e, in senso più positivo, il valore morale, il merito di una persona, non considerato in sé ma in quanto conferisce alla persona stessa il diritto alla stima e al rispetto altrui (con significato equivalente a quello di onorabilità)”.

A questo concetto si sono riferiti in Parlamento quanti ritengono che la condotta di Daniela Santanché non corrisponda al criterio costituzionale suddetto o sollevi seri dubbi al riguardo, tali da richiedere o almeno da consigliare un passo indietro, magari proprio in difesa dell’onore.

L’interessata ha invece costruito proprio sul concetto di onore la sua linea difensiva, affermando di voler rimanere al suo posto per dimostrare di non avere nulla di cui pentirsi o di cui chiedere umilmente scusa.  Nel merito della sua linea difensiva ci sarebbe molto da discutere, ma non serve, è questione di sensibilità e di dignità e finiremmo nel pirandelliano “così è (se vi pare)”.

Tutto rinviato eventualmente alla Magistratura, che non potrà però entrare nel merito a meno che non venissero accertati reati tali da comportare la decadenza dalla carica di senatrice o tali da innescare l’intervento del tribunale dei ministri.

Al posto di Daniela Santanchè mi sarei già dimesso non una, ma dieci volte. Chi mi conosce bene sa però che sono afflitto da “dimissionite acuta” e quindi non faccio testo. Non mi piace infierire su chi è in evidenti difficoltà, anche se l’aggressiva e strafottente presunzione sfoderata dalla ministra farebbe venire voglia di insistere e di picchiare duro.

In Parlamento, dopo il ping-pong sull’onore, è andata in scena la querelle fra giustizialismo e garantismo in un contesto di fregoliano trasformismo: chi era giustizialista è diventato garantista e chi era garantista è diventato giustizialista. Anche questi concetti scontano tutta la loro relatività. Colpisce tuttavia la contraddizione dei pronunciamenti della Santanché, tra quelli quando era all’opposizione e quelli di oggi. La coerenza, come l’onore e la dignità, è merce assai rara. Non è certamente negli scaffali del negozio santanchiano.

Nell’informativa della ministra Santanché ho riscontrato una contraddizione di fondo: è partita dall’assenza oggettiva, anche se contingente, di indagini in corso e quindi dalla forzatura parlamentare, salvo poi sciorinare una memoria difensiva, scritta in “avvocatese” e quindi tale da eludere il nodo politico della necessità o, quanto meno, dell’opportunità delle dimissioni.

Gira e rigira si torna alla Costituzione: chi l’ha scritta la sapeva veramente molto lunga.  “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Qualcuno sostiene che sia pericoloso andare dietro gli impeachment imbastiti dalle inchieste giornalistiche. Lo ha affermato anche la Santanché esorcizzando una politica imbelle che rischia di divorare i propri figli più o meno legittimi. È proprio per recuperare il ruolo della politica che bisogna sgombrare il campo dai dubbi e dalle incertezze e le dimissioni ne possono essere uno strumento necessario.

Meglio dimettersi per poco o niente che rimanere incollati alle seggiole a dispetto dei santi. Questione di stile, di senso del dovere, di riconoscere che il politico è solo con la propria coscienza e deve saper fare un passo indietro quando è il momento.  E poi, lasciatemelo scrivere, se si è a posto in coscienza, non è bello aprire la porta in faccia a quanti la spingono per abbatterla? Dopo l’onore viene la coscienza. Ho l’impressione e il timore che di questo passo non se ne esca vivi.