In Turchia, stando ai risultati elettorali in via di conferma ufficiale (?), Erdogan è sceso sotto il 50% dei voti, al 49,3%: è un dato che renderà necessario un secondo turno il 28 maggio. Il presidente nella notte ha parlato alla folla dicendo: “Siamo in netto vantaggio. Altri stanno cercando di ingannare le persone dicendo che sono avanti, ma potremmo ancora vincere al primo turno”. La replica del principale sfidante, Kilicdaroglu: “La volontà di cambiamento nella società è superiore al 50%, al ballottaggio vinceremo”.
I commentatori di geopolitica hanno suonato un preventivo campanello d’allarme sull’esito elettorale turco, mettendo sui piatti della bilancia da una parte la vomitevole continuità dittatoriale con le sue rassicuranti posizioni internazionali (adesione alla Nato, rapporti affaristici con la UE, intermediazione nel conflitto russo-ucraino, equilibri nella zona mediorientale, etc. etc.), dall’altra parte una “pericolosa” discontinuità democratica con i rischi di colpi di Stato dietro l’angolo e di sconvolgimenti nei rapporti internazionali. In buona sostanza, meglio l’uovo oggi della dittatura erdoganiana che la gallina domani della democrazia dello sprovveduto Kilicdaroglu. Siamo alla più spietata e paradossale delle realpolitik.
Non ho dubbi, preferisco la più incerta delle democrazie rispetto alla più rassicurante delle dittature più o meno camuffate. Mi viene spontaneo fare un parallelo con il dopo-Tito in Jugoslavia: le dittature, quando crollano, scoperchiano pentole pazzesche, che continuano a ribollire per decine se non addirittura centinaia di anni. Sarà così anche in Turchia? Probabilmente, seppure in extremis, Erdogan resisterà facendo leva su un controllo minuzioso dei media, sull’appoggio dell’apparato militare, sulle paure di una popolazione stremata dal terremoto e sul favorevole atteggiamento delle grandi potenze che vedono in lui un punto di riferimento irrinunciabile.
La democrazia non dovrebbe essere un’opinione politica, ma una certezza ideologica. Non è così. Il quieto (?) vivere internazionale finisce col fare il tifo per Erdogan. Superata persino l’affermazione di Winston Churchill: “È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora” [Da un discorso alla Camera dei Comuni, novembre 1947].
Parafrasando una storica battuta di mia madre, dico sconsolatamente: “Adésa i dittatòr i vólon fär i democràtic e i democràtic i vólon fär i dittatòr; podràll andär bén al mónd?”