Per chi suona la campana democratica

Volete sapere qual è la differenza fra giornalismo e politica, fra l’analisi dei fatti a livello mediatico e quella operata in sede politica? La risposta non è facile in un mondo dove ognuno cerca di fare non tanto e non solo il proprio mestiere, ma molto spesso anche il mestiere degli altri. Nei dibattiti televisivi i giornalisti si mescolano ai politici, tendono a darsi risposte prima che i politici riescano a formularle; i politici dal canto loro cercano la ribalta e anticipano le domande. In conclusione un gran casino!

Una brutta differenza rispetto alle conferenze stampa televisive di un tempo, che, forse in modo troppo schematico e censorio, davano tuttavia l’idea di un certo ordine nei rapporti tra i giornalisti interroganti e gli esponenti politici interrogati. È inutile rimpiangere il passato!?

Torno alla domanda iniziale prendendo ad esempio un fatto eclatante accaduto in Israele: una protesta spontaneamente oceanica contro il governo reo di voler introdurre una riforma della giustizia che punta a un rafforzamento dei poteri dell’esecutivo a scapito di quelli della magistratura. In particolare, secondo il testo, il governo dovrebbe: avere più rappresentanza nel Comitato responsabile di raccomandare la nomina e destituzione dei giudici; mettere un freno al potere della Corte Suprema sulla revisione delle leggi, compresa la “Legge Fondamentale” (un corpus di leggi con rango costituzionale: Israele non ha una Costituzione); permettere a una maggioranza parlamentare semplice – 61 deputati sui 120 della Knesset – di annullare le sentenze della Corte Suprema relative a modifiche o annullamenti delle leggi.

Secondo il premier Netanyahu, la riforma è necessaria perché la Corte Suprema ha troppi poteri ed è eccessivamente pervasiva nella vita dello Stato. I suoi detrattori ritengono invece che il premier, atteso da un lungo iter processuale, stia utilizzando la riforma per mantenere il controllo sulle nomine dei giudici. E per accontentare gli alleati di estrema destra che gli hanno consentito di fare il governo.

I giornalisti ed i commentatori politici hanno registrato l’evento come un fatto che mette a soqquadro i rapporti interni ad Israele nonché i rapporti internazionali a livello di Medio-Oriente e nei confronti degli Usa. Tutte osservazioni pertinenti e interessanti. Nessuno però si è sforzato di andare oltre e di scavare nelle motivazioni che hanno portato un autentico fiume di cittadini in piazza.

Finalmente ho sentito qualcosa di più da Pier Luigi Castagnetti, un politico a tutto tondo, uno dei giusti provenienti dalla prima repubblica: ha sottolineato la straordinarietà di una protesta che non parte da rivendicazioni economiche pur democraticamente rispettabili, ma provenienti da un concetto di politica individualistica e consumistica (io cosa ci guadagno, cosa porto a casa) come emerge dalle concomitanti proteste francesi. Gli Israeliani sono scesi in piazza per difendere la democrazia da un attacco del governo, per salvaguardare i principi costituzionali dagli assalti di un governo che vuole condizionare se non addirittura intaccare i poteri della Magistratura, sovvertendo uno dei cardini della democrazia, vale a dire la distinzione dei poteri.

Questo è il vero significato politico! Le altre sono conseguenze più o meno eclatanti che restano in superficie. Un noto storico ha subito virato spiegando il flop del governo, costretto a fermarsi, con i dubbi sollevati dall’esercito e con le interferenze degli Usa, come se il popolo non contasse niente e facesse solo da contorno alla storia dettata da ben altri soggetti. Una visione un po’ troppo realistica al limite del cinismo anti-democratico.

Per favore, lasciamo alla politica il suo respiro, non soffochiamola sotto o dietro gli equilibri dei poteri forti. I cittadini israeliani ci stanno dando una lezione, cogliamone la portata e consideriamola un positivo segno in controtendenza rispetto all’individualismo imperante ed al capitalismo sempre più invadente ed asfissiante.