L’acuto sparato alla “viva Meloni”

Per favore, tutto ha un limite. Che la destra da sovranista si sia trasformata in europeista non è molto credibile, ma può anche essere successo. Che la destra non sia più corporativa lo dimostra il recente corto circuito tra il governo e la corporazione dei benzinai ridotti a speculatori petroliferi. Che la destra non sia più populista ma rigorista l’ha ottenuto Mario Draghi con un autentico miracolo per il quale passerà alla storia. Che la destra non sia più nazionalista ma atlantista è merito dell’Ucraina a cui non si possono far mancare le armi. Che la destra difenda i nuovi poveri, vale a dire le partite iva e non i vecchi poveri, vale a dire i pensionati e i percettori del reddito di cittadinanza, è frutto dell’evoluzione socio-economica a cui ci si deve adattare. Che la destra non abbia le idee chiare e si rifugi nei tira-molla coordinati e continuativi è segno di moderna crisi davanti al nuovo che avanza. Che la mafia abbia preso paura della destra al potere e si sia arresa alla forza dello Stato lo dimostra l’arresto di Matteo Messina Denaro. Che la gente sia sempre più di destra lo certifica l’andamento dei sondaggi. Che la destra sappia governare bene lo dimostra la sinistra che non sa quali pesci pigliare. Che la destra riesca persino a ridimensionare il covid ne è una prova il “vivus” proclamato dopo il “mortus” sinistrorso e draghiano di due lunghi anni. Che la destra abbia la bacchetta magica per cambiare nome al Ministero dell’Istruzione aggiungendo “… e del Merito”, valorizzando così, appunto, il merito, esigenza tante volte sottolineata e poco praticata, è cosa buona e giusta. Che la destra sia capace di far fare sacrifici alla gente in nome di un ritorno al “Dio, patria e famiglia” di mussoliniana memoria lo possiamo anche credere. Che la destra abbia completamente vuotato i suoi armadi dagli scheletri del neofascismo lo sostengono persino molti pensatori di sinistra (forse sono rimasto solo io ad avere seri dubbi al riguardo): l’importante, come ha detto l’autorevole notabile della destra Gianfranco Fini, è che il presidente del Senato applichi correttamente il regolamento dell’aula a nulla importando che un giorno sì e l’altro pure sia preso da attacchi di vomito neofascista provenienti dalla sua indigesta storia personale, famigliare e politica.

Sono disposto a sopportare tutta la tortura di cui sopra, ma che Dante Alighieri fosse di destra il ministro della cultura Sangiuliano lo vada a raccontare a suo nonno, ammesso e non concesso che suo nonno sia in vita e abbia un’arteriosclerosi galoppante (altrimenti lo stopperebbe subito), cosa che non escluderei visto lo stato mentale del nipote.

Si rappresentava il Trovatore di Giuseppe Verdi, un’opera “da loggione” nel senso che sembra propria strutturata e concepita per soddisfare i gusti del loggione. Interprete principale era il tenore Richard Tucker, un fuoriclasse americano non molto noto al grande pubblico italiano, ma decisamente un grande cantante. Ebbene, alla prima rappresentazione, il loggione non gradì certe sue emissioni vocali di scuola americana e contestò ripetutamente la sua performance in modo clamoroso. Ricordo l’espressione attonita di mio padre, che non riusciva a capire un simile comportamento del pubblico e mi faceva cenni ripetuti di consenso alla interpretazione del grande cantante. Ma il bello venne durante un intervallo. Un loggionista assai critico fu incalzato da mio padre che gli chiese, un po’ provocatoriamente, da quali tenori avesse ascoltato migliori interpretazioni del ruolo di Manrico del Trovatore, in modo da poter così violentemente contestare quella di Tucker. Il loggionista, gonfio della propria ignoranza, rispose seccamente che aveva sentito cantare molto meglio il Trovatore da suo zio. A quel punto mio padre sbottò e chiuse la conversazione con una battuta lapidaria al limite dell’offensivo: “A m’ sa che to zio al fiss un gran äzon”.  Piaciuta? A me piacque perché era il degno sigillo ad una serata “no”, non del tenore ma del loggione. In questo quadretto c’è tutto l’approccio di mio padre alla musica ma anche alla vita: libero pensatore, libero giudizio, libere idee, mai il cervello all’ammasso, si chiami tifo, si chiami loggione, si chiami…destra in vena di riscossa pseudo-culturale, si chiami ministro Gennaro Sangiuliano alle prese con la Divina Commedia.

Rimanendo sotto la metafora teatrale è giusto ricordare che il loggione di Parma ogni tanto ruggiva: il famoso e simpatico critico Rodolfo Celletti ammetteva di godere, sotto sotto, allorquando i parmigiani spazzolavano qualche mostro sacro del bel canto. Però aggiungeva: «Ho la sensazione che a voi parmigiani piacciano un po’ troppo gli acuti sparati alla viva il parroco…».

Purtroppo bisogna prendere atto che il loggione è cambiato e non saprei quale accoglienza riserverebbe al tenore-ministro della cultura, impegnato in un impazzito, steccabile e stonato do di petto con cui stupire l’uditorio, ridotto appunto a loggione-tifoso dell’acuto sparato alla “viva Giorgia Meloni”. Lo saprebbe svergognare? Un tempo sì, oggi non lo so!