La quarta (drammatica) fase di Aldo Moro

Voglio spendere alcune parole sul dramma del rapimento e della morte di Aldo Moro, rivissuto tramite la serie televisiva di Marco Bellocchio. Ho infatti visionato questa ricostruzione cinematografica molto provocatoria, interessante e toccante. Penso e spero di trovare il “coraggio” di scrivere qualcosa di organico e impegnativo sulla vicenda, per ora mi limito a poche battute a caldo, anzi a caldissimo. Sono infatti rimasto sconvolto dall’intreccio drammatico proposto: ci sarà sicuramente qualche forzatura, ma ho cercato di cogliere l’intenzione di rivivere appassionatamente questa vicenda in cui la politica si intreccia clamorosamente con l’umanità dei personaggi.

Dramma è un’opera diretta a riprodurre, nei modi della rappresentazione teatrale, una vicenda che si fondi e si sviluppi su elementi di conflitto particolarmente significativi (talvolta addirittura simbolici) nell’ambito delle esperienze sociali e spirituali proprie di determinati ambienti o individui o di particolari momenti storici della cultura e della società. Questa mi è sembrata la chiave di lettura.

Il dramma di Moro consapevole della propria levatura morale rispetto ai bassifondi della politica democristiana e non solo; il dramma di un politico, che vede franare miseramente lo stile dialogico di una vita impegnata in tal senso e forse anche i limiti di un’azione troppo timida e bloccata sull’unità della DC partito-stato; il dramma di un uomo che vuole vivere, mentre si rende conto di essere vigliaccamente martirizzato; il dramma di un cristiano che non può fare a meno di giudicare (sferzante e pesantissimo il “condivisibilissimo” giudizio su Andreotti, ma anche quello su Cossiga); il dramma di una famiglia da lui faticosamente tenuta insieme, ma non unita e abbarbicata al suo carisma più che all’amore reciproco; il dramma di una moglie durissima, ma consapevole del valore del suo uomo-gigante, mentre lo vede abbandonato  da tutti i nani di cui probabilmente conosceva, non solo per sentito dire, i limiti umani e politici (anche l’uomo migliore infatti, Zaccagnini, non va oltre il pianto…).

Il dramma della politica che non riuscì a prescindere dai propri rigidi e freddi schemi messi a repentaglio dalla contestazione terroristica. Veramente non si poteva trattare con le Brigate Rosse? Per dirla con Marco Pannella, vinse più la Ragion di Stato che lo Stato di diritto. La forza della democrazia sta nel confrontarsi pacificamente con tutti ed era questo concetto che Moro tentò di spiegare nelle sue lettere: bisognava scommettere sulla vittoria da conquistare sul campo e non da difendere sdegnosamente ed aprioristicamente. La pensavo così allora e la penso così ancor più oggi, dopo aver visto le storture politiche nate proprio dalla fine prematura di un disegno di evoluzione democratica di cui Moro era inventore ed interprete. La sua tragica fine continua a gettare una luce sinistra sulle vicende politiche di ieri, oggi e…domani.

Il dramma di Francesco Cossiga forse un po’ troppo ridicolizzato, ma probabilmente l’unico che, complice anche il proprio squilibrio psicologico (la storia si incaricò di farlo emergere), aveva tutti gli elementi intellettuali e reali per contestualizzare l’evento da tutti i punti di vista e per intravedere, almeno in filigrana, l’intrigo internazionale in cui probabilmente eravamo parzialmente finiti nel segno della più spietata realpolitik.

Il dramma di papa Paolo VI, molto amico ma anche molto politico e quindi in totale e paralizzante sofferenza (un atteggiamento tipico di questo grandissimo e indimenticabile papa); la nota espressione del “senza condizioni” riferita alla liberazione di Moro, aggiunta e inserita nel messaggio, peraltro nobilissimo, inviato alle BR, segna la poco evangelica resa della ragion di Chiesa alla suddetta Ragion di Stato; anche il papa finì per comportarsi più come capo politico e religioso che come leader cristiano e umano.

Il dramma dei terroristi delle Brigate Rosse incamminati su una strada fine a se stessa, che di questo si resero conto, ma non ebbero né il coraggio né l’intelligenza di uscire dal vicolo cieco della violenza (Moro con la sua mitezza gliene diede l’occasione, ma non seppero coglierla, buttando continuamente il fango della decisione finale addosso agli altri); sono sempre stato convinto che Moro abbia aperto un dialogo con i brigatisti e sia riuscito a dimostrare la loro inconsistenza culturale col rischio di cadere in giochi che andavano ben oltre la loro farneticante rivoluzione proletaria. Forse lo hanno ucciso proprio perché li aveva smascherati nella loro pochezza.

Il dramma di un Paese che non seppe cogliere la gravità della situazione al di là delle manifestazioni manierate di piazza (anch’io durante la prigionia di Moro non mi ero reso conto dell’enormità del momento storico), fuorviato dal dibattito mediatico sulla pazzia del prigioniero e dalla sua eventuale caduta nella sindrome di Stoccolma (a Stoccolma forse c’erano tutti gli altri…). La scienza è sempre pronta a cavalcare gli equilibri di potere e in quel momento Aldo Moro rappresentava una minaccia: meglio farlo passare da matto!

Mi sono sforzato di cogliere l’occasione per vivere e rivivere questi drammi e mi sono fatto tante domande, che meriterebbero di essere approfondite senza pietà: non so se avrò il coraggio di continuare a riflettere e a piangere, sì perché mi sono ripetutamente commosso fino alle lacrime. Per ora penso possa bastare e chiedo scusa del disturbo.