Le gufate democratiche

Esistono due chiavi di lettura democratica del responso elettorale a prescindere dalla serietà del sistema con cui si è votato: la rappresentatività e la governabilità. Vorrei rapidamente verificare chi ha vinto e chi ha perso sulla base di questi criteri. Per la rappresentatività (al netto di un astensionismo che la dice lunga) mi sembra necessario fare riferimento ai singoli partiti, per la governabilità occorre invece guardare alle coalizioni che si sono presentate a tale scopo.

Tra i partiti ha indubbiamente stravinto Fratelli d’Italia sotto la guida di una pimpante Giorgia Meloni. Un trionfo enfatizzato mediaticamente dai tanti che si stanno riposizionando per salire sul carro del vincitore, affrettandosi a sdoganarlo dagli indubbi inquietanti retaggi del passato. La vittoria comunque c’è anche se non la capisco. Di altri vincitori non ne vedo. Tutt’al più posso concedere un pareggio a qualcuno che se la sta tirando da quasi-vincitore.

Il M5S ha contenuto l’andamento franoso nei consensi tramite la partecipazione a “Tale e quale show” di Giuseppe Conte, impegnato nell’imitazione del leader di sinistra, sventolando le discutibili bandiere del reddito di cittadinanza, della diminuzione dei parlamentari, dei doppi mandati parlamentari, del contenimento delle armi,  come se bastasse fare un po’ di demagogia per puntare alla giustizia sociale, alla moralità pubblica ed alla pace, tutti sacrosanti obiettivi appena sfiorati in una campagna elettorale indovinata ma di brevissimo respiro.

Forza Italia è rimasta aggrappata all’intramontabile appeal di Silvio Berlusconi, che si accontenta di contare giocando sulle piroette a livello italiano, europeo e mondiale, che probabilmente sta già studiando ballo e non mancherà di esibirsi quanto prima. Se questa è una vittoria…

Il terzo polo di Calenda e Renzi c’è, ma non si vede se non nelle mire governiste del primo (l’illusione non sopita del draghismo con o senza Draghi) e nelle intenzioni disfattiste del secondo (la distruzione del partito democratico, che peraltro è già orientato di suo in tal senso).

E veniamo ai tanti sconfitti tra cui i casi più eclatanti, anche se non imprevedibili, sono quelli del partito democratico e della Lega. Dal momento che ho una sorta di vocazione esistenziale alla sconfitta, mi viene spontaneo concedere molta e comprensiva attenzione a questi casi.

Il PD viene rimesso in profonda discussione nella sua storia, sconta la mancanza di strategia politica e la contraddittoria e sucida tattica elettorale: della serie Enrico Letta non ne ha azzeccato una, anche se ha preso in mano un partito troppo condizionato dalla casta post-comunista, incapace di valorizzare i legami storici con i mondi di riferimento e impreparato ad interpretare il pur difficilissimo ruolo di un partito di sinistra in una società che guarda più ai valori correnti che a quelli ideali.

Apprezzabile l’onestà intellettuale di Letta che ammette la sconfitta e gli errori, ma molto discutibile e troppo routinario il ventilato processo di revisione e rinnovamento, che rischia di rimanere confinato in una diatriba correntizia  dagli esiti di mero compromesso oppure di finire in una scissione in due tronconi, uno massimalista e sostanzialmente post-comunista, magari condito da un’alleanza con il M5S, l’altro di stampo catto-liberista, candidato ad infoltire la sempre più insignificante e inconcludente area centrista. Per uscire da queste strettoie post-ideologiche e prive di ansia valoriale, sarebbe necessario un umile bagno sociale nell’associazionismo impegnato nelle battaglie umane prima che politiche e sindacali: mi riferisco al volontariato, all’ambientalismo, al pacifismo, alla cooperazione sociale, a tutta la galassia riconducibile al valore della solidarietà.

Non mi associo ai processi sommari dei somari: mi riferisco ad una vomitevole discussione tra Enrico Mentana, Paolo Mieli, Alessandro De Angeli, Marcello Sorgi e Tommaso Labate, i quali nel salotto snob de La 7 si divertivano a fare le pulci al PD, preoccupati soltanto di liberarsene per poter meglio aderire ai nuovi equilibri politici in atto. Mi sono sentito toccato nel vivo e ho promesso in cuor mio di essere molto meno intransigente e molto più partecipe nei confronti di una sinistra alla faticosa ricerca di se stessa.

Due parole su Salvini e la sua strenua e farneticante autodifesa: è tutta colpa di Draghi e della partecipazione al suo governo. Le sconclusionate e bizzose scelte leghiste assolte con formula piena o quanto meno condannate al minimo della pena per la prevalenza delle attenuanti governiste rispetto alle aggravanti socio-politiche. I legami territoriali scricchiolano, i riferimenti sociali tentennano, la classe dirigente scalpita, l’autonomia regionale non basta a coprire le battaglie mancate e perse. Ci penserà Giorgia Meloni dall’alto della sua munifica leadership? Staremo a vedere. Non sono molto interessato.

Poi ci sono gli esclusi eccellenti, al netto dei ripescaggi: alla cocente sconfitta di Luigi Di Maio riservo una maligna goduta; a quella di Sgarbi un sospiro di sollievo; a quella di De Magistris una lacrima sul viso; a quella di Paragone una simpatica risatina; a quella di Pillon un semplice “e chi era?”; alla esclusione di Emma Bonino l’onore delle armi (ad un certo punto avevo preso in considerazione l’ipotesi di votare la sua lista).

E la governabilità? Stando ai numeri non dovrebbe mancare, senonché per governare ci vogliono i voti nelle urne e in Parlamento, ma occorre anche esserne capaci e poter contare su una fitta serie di rapporti a tutti i livelli, nazionali ed internazionali, sociali ed economici, politici e finanziari. Qui viene il bello…

Speriamo che, tra le prospettive di un forte governo di destra, la “gasatura” dei vincitori di destra, l’acredine dei vinti di sinistra, l’illusione dei “così-così”, non vada alla malora la democrazia parlamentare in attesa delle prossime elezioni di cui probabilmente non si tarderà a parlare. Sto gufando?