La berretta rossa suscita invidia

Solitamente mite e prudente, questa volta il pastore ambrosiano lancia un duro – e sarcastico – attacco alle scelte cardinalizie del papa. «Neanche il Padreterno sa che cosa pensino i gesuiti», scandisce. L’arcivescovo metropolita di Milano, monsignor Mario Delpini, mai promosso cardinale in una città dove solitamente arriva la porpora, ha lanciato una vera e propria bordata al Pontefice. Nel giorno in cui cadeva la ricorrenza del patrono sant’Abbondio, nel duomo di Como, si è svolto il pontificale celebrato da Oscar Cantoni, fresco di porpora. Era la prima messa da cardinale per Cantoni. E Delpini, alla guida della delegazione dei vescovi lombardi, ha preso la parola: «Mi faccio voce della Conferenza episcopale lombarda e di tutte le nostre chiese… Ci sono state delle persone un po’ sfacciate che si sono domandate perché il Papa non abbia scelto il metropolita (Delpini, ndr) per fare il cardinale e abbia scelto invece il vescovo di Como. Ora io credo che ci siano delle buone ragioni per questo. Naturalmente interpretare il pensiero del Santo Padre è sempre un po’ difficile perché forse vi ricordate quell’espressione altissima di una sapienza antica che diceva che tre sono le cose che neanche il Padreterno sa: una è quante siano le congregazioni delle suore, l’altra è quanti soldi abbia non so quale comunità di religiosi e la terza è che cosa pensino i gesuiti. Ma in questa scelta mi pare si riveli chiaramente la sapienza del Santo Padre».

Perché ha optato per il vescovo di Como per essere un suo particolare consigliere? Io ho trovato almeno tre ragioni. La prima è che il Papa deve aver pensato che l’arcivescovo di Milano ha già tanto da fare, è sovraccarico di lavoro, e quindi ha detto: bisogna che lavori un po’ anche il vescovo di Como e quindi ha pensato di dare un po’ di lavoro anche a te (rivolgendosi a Cantoni, ndr). La seconda ragione è che probabilmente il Papa ha pensato: quei bauscia di Milano non sanno neanche dov’è Roma, quindi è meglio che non li coinvolga troppo nel governo della Chiesa universale. E forse c’è anche un terzo motivo. Se mi ricordo bene, il Papa è tifoso del River (in realtà Jorge Mario Bergoglio tifa per il San Lorenzo, ndr) che non ha mai vinto niente, e forse ha pensato che quelli di Como potrebbero essere un po’ in sintonia perché si sa che lo scudetto è a Milano». (Domenico Agasso sul quotidiano “La stampa”)

Mia sorella Lucia, nella sua implacabile schiettezza, non sopportava i grilloparlanteschi atteggiamenti della gerarchia cattolica nelle sue varie espressioni centrali e periferiche, volti ad esprimere forti e generiche critiche ai politici, con cui peraltro non era affatto tenera. Rinviava però al mittente parecchi rilievi: “Sarebbe molto meglio che si guardassero loro, che ne fanno di tutti i colori, anziché scandalizzarsi delle malefatte delle persone impegnate in politica”.

Quando il mio parroco don Domenico Magri fu trasferito da una parrocchia cittadina a quella di Langhirano con i soliti metodi inaccettabili, quasi i sacerdoti fossero dei pacchi postali da mandare a destra e manca, mia sorella Lucia non seppe resistere alla tentazione di reagire in modo nettamente polemico rispetto al solito inaccettabile andazzo. Agli attacchi verso la Curia si sentì rispondere dall’allora potente vicario generale della diocesi: «Nella Chiesa non ci devono essere problemi di carriera…». «Sì certo, ma il caso vuole che lei abbia fatto carriera, mentre don Domenico lo avete spedito in fretta e furia a Langhirano a farsi il mazzo…».

Ho preso volutamente a prestito questi sfoghi di mia sorella per introdurre la mia stupita stigmatizzazione dell’atteggiamento da osteria religiosa, tenuto dall’arcivescovo di Milano in aperta e sarcastica polemica con papa Francesco.  Se aveva qualcosa di serio da obiettare lo doveva fare nei modi e nei tempi dovuti, altrimenti avrebbe dovuto starsene buono e zitto, anche perché la questione sollevata appare come una polemica personale decisamente inopportuna e scorretta.

Non ho idea di come reagirà pubblicamente e/o privatamente il papa. Già l’istituto del cardinalato suscita qualche perplessità: puzza di carriera nobiliare lontano un miglio. Se poi ci aggiungiamo polemichette da quattro soldi, dettate da risentimenti personali da parte dei mancati porporati, arriviamo al top del non senso.

Il vescovo Delpini, nascondendosi dietro la propria incontenibile invidia, si fa probabilmente interprete di una “equilibristica” preoccupazione crescente nella gerarchia per il dopo Bergoglio: papa Francesco è sempre più fisicamente provato, si intravedono possibili sue dimissioni. Da una parte molti sarebbero felici e contenti che il suo papato finisse il più in fretta possibile per ritornare indietro. Dall’altra parte il sommo pontefice ha il diritto-dovere di creare i presupposti per una continuità con i suoi indirizzi teologici e pastorali e questo infastidisce i tradizionalisti. Sul collegio cardinalizio si scaricano queste tensioni anche in vista di un eventuale ravvicinato conclave.

Stesse in me, i signori cardinali li manderei tutti a farsi il mazzo nelle più calde periferie della Chiesa. Papa Francesco non può arrivare a tanto, si permette però di concedere la porpora a chi ha lavorato, lavora e lavorerà nella linea evangelica dell’attenzione agli ultimi e in spirito di autentico servizio. Evidentemente Mario Delpini, che fa finta di non capire, non corrisponde a questa impostazione e la sua scomposta e presuntuosa reazione lo sta a dimostrare: credo che per lui la porpora sia diventata impossibile. Se ne faccia una ragione. Se tutti i problemi della Chiesa si riducessero alle incazzature dell’arcivescovo di Milano…